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La catastrofe della Cassa di Risparmio di Rimini, ancora senza colpevoli


21 Marzo 2021 / Paolo Zaghini

Primo Silvestri: “CARIM. Ascesa e caduta di una banca del territorio” – Il Ponte.

Primo Silvestri ha scritto un piccolo bignami di una brutta storia tutta riminese, durata dieci anni, dove 7.000 piccoli e medi azionisti sono stati “tosati” brutalmente da … non si sa da chi, secondo la sentenza del Tribunale di Rimini del febbraio 2018 (“i fatti non sussistono” e i 23 imputati sono stati tutti assolti). Silvestri ha descritto, passo dopo passo la fine della Cassa di Risparmio, la banca della Città secondo la volgata comune, dopo 177 anni (era nata nel 1841 regnante il Papa Re) di attività non sempre tranquilla.

Le relazioni degli ispettori della Banca d’Italia del 2010, che portarono al primo commissariamento della banca, ed anche diverse disamine di valutazione espresse dal Tribunale, dicono altro rispetto alla mission che Carim diceva di avere: promuovere lo sviluppo e il progresso della nostra economia.

I numeri del 2012 della Cassa di Risparmio: circa 800 dipendenti, il controllo di un terzo del mercato del risparmio provinciale e di un quinto dei crediti, 126mila clienti (un decimo costituito da piccole imprese, poco più dell’1 per cento da medie e grandi imprese, il resto da altri privati).

Ma i primi 50 clienti, in maggior parte del settore costruzioni, concentravano il 30 per cento degli impieghi. Tra questi i maggiori debitori, insolventi, che hanno lasciato un buco di circa 950 milioni di euro (anche se con affidamenti garantiti da ipoteche su numerosi beni immobili, circa 600).

Scrive Silvestri: “Siccome i soldi non escono dalle banche da soli, qualcuno, al vertice di Carim, consentiva. O quanto meno lasciava correre. Operazioni che avvenivano in un contesto di gravi carenze di gestione e di porte girevoli che funzionavano a pieno ritmo, dove non era infrequente che controllati e controllori si scambiassero di posto”. Dunque qualcuno contava, e riceveva, più di altri. Anche se non lo meritava. Finanziamenti “relazionali”  più che di merito (creditizio), li ha definiti il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco.

Carim è stata commissariata fino all’autunno del 2012. “Come è andata a finire è cosa nota. Carim, dopo aver tentato disperatamente di salvarsi, mettendo in campo aumenti di capitale a ripetizione per coprire i buchi, alla fine ha dovuto cedere passando arma e bagagli, tecnicamente ‘incorporazione per fusione’ a Crédit Agricole. Le azioni Carim che un tempo valevano 21 euro crollano al prezzo ‘congruo’, secondo il perito del Tribunale delle imprese di Bologna, di 0,194 euro. Nel famoso concambio, mille azioni Carim sono scambiate con appena 32 azioni Crédit Agricole. La differenza salta agli occhi. Per molti azionisti una svendita, ma la verità è che Carim, e con lei la Fondazione, che ha accolto senza colpo ferire questa valutazione, era decotta e non aveva nessun potere contrattuale. Il rischio era il fallimento”.

Nel febbraio 2018 venne approvato il progetto di fusione, che si concluse nel settembre dello stesso anno, quando la Carim cessò di esistere.

Purtroppo le conseguenze, oggi, ricadono su tutti, a cominciare dagli ex azionisti, più di 7 mila, che si sono visti quasi azzerare il valore delle loro quote. Per continuare con la scomparsa di Eticredito, confluita in Carim in una operazione che avrebbe dovuto rafforzare entrambi, ma che, al contrario, ne ha decretato la fine, dopo aver versato inutilmente tutto il suo capitale.

Infine il territorio, dove le erogazione della Fondazione Carim sono crollate da 3,4 milioni di euro del 2010 a poco più di 200 mila euro di oggi. Qualcosa in più con apporti di Crèdit Agricole.

I vertici Carim, 23 ex amministratori, sono stati portati in Tribunale e processati per diversi reati legati alle loro funzioni. Ma alla fine, con sentenza emessa nel febbraio 2018, a quasi dieci anni dalla scoperta dei fatti, furono tutti assolti perché “i fatti non sussistono”.  In realtà dal falso in bilancio si sono salvati solo grazie alla prescrizione.

I fatti non sussistono non perché la banca stia ancora in piedi, ma semplicemente perché la legge prevede la non punibilità per errori di bilancio che restano sotto una certa soglia. Che secondo il Tribunale non è stata superata. In verità, sostengono molti addetti ai lavori, per come è configurata la legge è quasi impossibile da superare. Resta il fatto, incontrovertibile, che la Carim non c’è più.

Contro l’assoluzione il Pubblico Ministero ha presentato Appello al Tribunale di Bologna. Inizialmente previsto per il 22 ottobre 2020, è stato rimandato a data da destinarsi.

La caduta rovinosa della Carim è stata una grossa ferita per il territorio riminese, ma nonostante le grandi perdite monetarie di tante persone, sulla vicenda è sceso un silenzio assordante.

Da piccolo storico partigiano vorrei ricordare che la Cassa di Risparmio è sempre stata la cassaforte della borghesia riminese, impegnata a finanziare per molti decenni prima le attività agricole e poi quelle immobiliari e turistiche. I suoi amministratori, in Banca e nella Fondazione, sono stati sempre espressione “del fior fiore delle professioni liberali e dell’imprenditoria locale”. Dal dopoguerra alla sua chiusura nelle mani del mondo cattolico, in particolare della DC.

Vogliamo ricordare che i Presidenti della Banca sono stati anche leader democristiani come Franco Montebelli, dal 1977 al 1987, Giuseppe Gemmani dal 1987 al 1997 (imprenditore sì, ma anche segretario della DC riminese per tanti anni) ed anche, dal 1990 dopo la legge Amato/Carli, i Presidenti della Fondazione, cioè del socio di maggioranza della banca di cui deteneva oltre il 70%: Luciano Chicchi, dal 1993 al 2008, e Massimo Pasquinelli, dal 2010 al 2016. Entrambi segretari democristiani.

Ho il ricordo vivo di Carlo Della Rosa, dirigente di primo piano della Federazione Comunista riminese che seguiva i temi dell’economia, quando ogni tanto usciva con un articolo, un folder documentatissimo di denuncia, l’organizzazione di un convegno sui problemi del credito e sulle carenze, colpevoli, della Cassa di Risparmio nell’aiutare lo sviluppo dell’economia riminese. In anni in cui il PCI vinceva una elezione dopo l’altra, governava associazioni, compiva le scelte di sviluppo per le nostre città. Ma nulla poteva sulle banche.

Il libro di Silvestri prova a fare luce anche sulla vicenda CIS, la banca di San Marino, comprata nel 2005 per 111 milioni di euro e ceduta nel 2012 per 29 milioni di euro, dopo aver accumulato perdite per 87 milioni. E punta un faro sulle vicende riminesi riguardanti la Fondazione, confrontandole con ciò che è invece successo alle Fondazioni di Forlì e a Ravenna, dove scelte completamente diverse hanno consentito un esito positivo per quei territori.

La Fondazione riminese nei primi dieci anni di questo secolo ha fatto investimenti annui sul nostro territorio fra i 2,5 e i 3,4 milioni. Le erogazioni 2018 della Fondazione si sono ridotte invece a soli 223mila euro (di cui 162mila destinati a sostenere UNI.Rimini, cioè la sede universitaria).

Dice Silvestri: “Sintetizzando: l’esperienza delle Fondazioni bancarie della Romagna insegna che il tema vero non è tanto il controllo o meno delle banche, pure importante, ma in particolare come queste sono gestite. Perché, se per cattiva gestione, le banche producono perdite più che utili, non c’è controllo che tenga. La Fondazione Carim, vera padrona della Carim a cui spettava la scelta degli amministratori, era ossessionata dal controllo e alla fine si è ritrovata con il classico pugno di mosche. Facendo pagare il prezzo al territorio, che diceva di difendere”.

Paolo Zaghini