La magia perduta dei Pasqualotti
3 Gennaio 2017 / Stefano Cicchetti
Da ragazzo (quindi, purtroppo, tanti anni fa) con alcuni amici mi ritrovai a passare i giorni fra Capodannno e l’Epifania a Badia Prataglia, in uno sperduto casolare. Riscaldati solo da una vecchia cucina economica che non “tirava” neppure bene, costretti quasi sempre in casa da bufere incessanti, senza acqua se non quella della neve sciolta sulla stufa per via della condotte gelate, alla vigilia della Befana eravamo ridotti altrettanti spazzacamini maleodoranti.
Verso l’ora di cena sentimmo bussare alla porta, mentre l’ululare del vento nell’abetaia pareva portasse un canto ultraterreno. Siccome non era poca neppure la fame – ormai raggiungere il paese era diventata un’impresa e le provviste erano al minimo vitale – qualcuno pensò seriamente ai primi sintomi del deliquio. Chi aprì la porta aveva perciò lo spavento dipinto sul volto, che raddoppiò nel vedere il buio costellato di fiammelle, mentre nel canto – di angeli o di demoni? – l’unica parola comprensibile era “morte”.
Ma erano solo bambini, intirizziti e spaventati quanto noi. Poco dopo, mentre imbarazzati ci frugavamo le tasche cercando qualche dono, ci rendemmo conto quanto noi cittadini, nonostante le velleità primitiviste, fossimo ormai tagliati fuori da tradizioni che pure erano vivissime presso i nostri padri. Anche loro infatti – e ce lo avevamo pur raccontato decine di volte – la notte dell’Epifania erano stati Pasqualotti: erano andati a bussare di casa in casa facendosi luce coi lumini di cera, cantando strofe e ricevendo in cambio qualche regalino.
La Pasquella è, o era, una delle tradizioni più sentite in Romagna, nelle Marche in buona parte dell’Umbria. Si chiama Pasquarella in alcune aree del Lazio settentrionale, mentre in Toscana prende il nome di Befanata. Quasi ovunque i bambini si avventuravano nell’impresa la notte fra il 5 e il 6 gennaio, ma in alcuni luoghi poteva essere quella di San Silvestro o di altri giorni vicini. Quei piccoli cantori erano da noi i Pasqualotti, oppure, secondo le zone, Befanotti, Pasquaroli, Pasquellanti, Pasquellari o, nell’alta Sabina ed in Valnerina, Pasquarellari.
Ma perchè Pasquella? E che significato aveva?
Nei miti pre-cristiani, celtici ma non solo, durante il periodo delle dodici notti tra il solstizio d’inverno e l’Epifania, i morti uscivano dal loro regno. Nella dodicesima notte i loro spiriti “entravano” negli animali della stalla e questi acquistavano il dono della parola. Ascoltare i loro discorsi rappresentava il massimo della sfortuna. Se gli spiriti-animali avessero poi sentito parlar male di loro chi li accudiva, se lo sarebbero portato via nel mondo sotterraneo. Facile immaginare perché le bestie in quei giorni ricevessero un sovrappiù di sollecitudini.
Appare evidente la somiglianza con Halloween, che fra i Galli cadeva nella notte del loro capodanno, Samhain, fra il 31 ottobre e il primo novembre. Ma i popoli celtici non erano gli unici a credere in notti magiche in cui i trapassati facevano visita ai vivi. Anche Latini, Umbri e forse Etruschi avevano miti del genere. Tutti poi convertiti alle festività cristiane.
Si diceva Pasquella da “Pasqua Epifania”, poiché nel cristianesimo antico tutte le più importanti festività venivano definite “Pasqua”. Oltre a questa, e a quella di Resurrezione, erano “Pasqua” anche Pentecoste e lo stesso Natale.
Pasquella è anche il nome del canto della questua rituale, eseguita solo a voce o accompagnati dai più semplici strumenti musicali. I Pasqualotti augurano la buona sorte per l’anno venturo, fertilità dei terreni e delle giovani spose, in cambio di dolci, frutta secca, magari un dito di vino. Rappresentano le anime degli antenati, da riverire quanto da temere: vanno sì accontentati, ma non devono oltrepassare la soglia, altrimenti non vorranno più lasciare la casa che fu la loro. Certi testi più cristianizzati annunciano anche la venuta del Messia. Ma come in tutti i canti popolari, non esistevano strofe canoniche; sulla base del canovaccio tradizionale, si era liberi di improvvisare, con riferimenti alla famiglia visitata o ai fatti del paese.
Ecco una delle tante versioni romagnole:
Sgnour padroun arvì la porta
che que forra u’ jè la morta
e li dentro c’e l’allegria
buona Pasqua Epifania
(Signor padrone aprite le porte
che qui fuori c’è la morte
e lì dentro c’è l’allegria
buona Pasqua Epifania)
È soprattutto nel cesenate e nel forlivese che si sta cercando di tenere in vita la tradizione dei Pasqualotti. Anche in questi giorni sono numerose le iniziative, spesso organizzate dalle scuole: a Portico di Romagna, Rocca San Casciano, San Martino in Strada, Predappio, nella stessa Cesena, ma anche a Cervia e Savio. Anche se per lo più ormai si tratta di feste in piazza organizzate per il giorno del 6 gennaio e i cantori fanno da contorno all’arrivo delle tante Befane. Solo nei paesi più remoti i bambini affrontano ancora la paura e la meraviglia della dodicesima notte.