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La pappa del cuore


4 Giugno 2020 / Nando Piccari

Ho ricevuto una mail che mi ha molto colpito, sia per la sovrabbondanza di maiuscole che per l’esortante messaggio contenutovi: «Scopri il lavoro più Cool del momento. Diventa un Influencer Professionista di Successo. Un Influencer Competitivo, Consapevole e Preparato».

Era forte la tentazione di raccogliere quell’invito, però a fugarla è subentrata la consapevolezza che non sarei apparso un credibile “aspirante cool” presentandomi al corso con il mio arcaico Nokia di cm 5 x 12, che quando lo estraggo di tasca richiama su di me gli sguardi di commiserazione degli astanti, che si capisce bene stiano pensando: “Poveretto! Ma come si farà a vivere senza l’iPhon? Che sia un immigrato?”.

Altrimenti avrei tentato quell’esperienza, attratto non già dal miraggio del business – il marketing non è mai stato il mio forte – né dalla prospettiva di diventare un “influencer competitivo”, ossia un rompicoglioni. Ma soltanto per la prospettiva di poter acquisire, già nella fase iniziale del corso, una certa dimestichezza con la “fuffa mediatica”, utile a contrastare sul loro stesso terreno gli spacciatori della sovrabbondante “pappa del cuore” che da mesi ci sta inondando.

Come non ricordare, nella fase 1 del coronavirus, il melenso raccontino – in Tv, sulla stampa, sui “social” e perfino nella pubblicità – di un’Italia sì flagellata dalla pandemia, ma che grazie al coraggio, alla maturità, all’abnegazione, al prodigarsi per il “bene comune” dei suoi figli – tutti, dal primo all’ultimo, senza defezioni né ritardi – stava dando al mondo e a se stessa un meraviglioso spettacolo di collettiva virtù civica?

Certo, in quei frangenti la maggioranza degli Italiani ha dimostrato di essere costituita da persone perbene, con la testa sulle spalle; che insieme al sacrosanto desiderio di preservare la loro salute, sentivano altrettanto forte il dovere morale di non appesantire ulteriormente la “terribile prova di generosità” a cui medici, infermieri, volontari si stavano sottoponendo in quei giorni. Ma era fin da allora ben visibile anche una vastissima schiera di portatori sani di un tasso variabile di fetenzia, suddivisi in molteplici aggregazioni, ognuna delle quali pronta ad autodefinirsi “il popolo di qualcosa”.

C’erano così gli emuli di Salvini, che ogni due giorni passavano dal “si doveva chiudere prima!” al “cosa si aspetta ad aprire tutto subito?”, e viceversa. C’erano quelli pronti a insorgere contro l’obbligo della mascherina e del metro di distanza fra le persone, bollandoli come l’inizio della dittatura. C’erano quelli che alla sera andavano a letto con la Costituzione sotto il cuscino, per essere pronti a spiegarci al risveglio come la libertà costituzionale di poter loro infettare gli altri fosse prevalente sul diritto degli altri a non essere da loro infettati. C’erano quelli che, pur non sapendo cosa fosse la Costituzione, ragionavano come i sopracitati costituzionalisti.. .del primo caffè mattutino. C’erano quelli che “gli animali a casa mia mai!”, così dovevano affittare il cane del vicino per andare da qualche parte senza la rottura di stare lì a far sapere i cavoli loro compilando l’autocertificazione. C’erano quelli che, pur non avendo in vita loro corso per più di trenta metri continuativi, all’improvviso avevano scoperto di sentirsi maratoneti. Cerano quelli catalogabili soltanto come “casi umani”, che per sentirsi qualcuno vagavano ogni giorno alla ricerca di vigili, polizia o carabinieri, per farsi multare.

Nella fase 2 ognuna di queste “fetenzie” ha trovato un “protettore”, non solo in Salvini o nella Meloni, ma anche in qualche Presidente di Regione o in qualche Sindaco, il che ha dato vita ad alcuni casi di cervellotica “esibizione istituzionale”.

Aveva iniziato il Sindaco di Messina Cateno De Luca, giocando a fare il padrone dello Stretto di Messina e coprendo di contumelie la Ministra dell’Interno (ma bisogna capirlo: uno che da neonato l’hanno battezzato Cateno, da grande con qualcuno dovrà pure sfogarsi…). In Campania, il funambolico Presidente De Luca e il Pupone De Magistris, Sindaco di Napoli, continuano a darsele a suon di contrapposte ordinanze; mentre il Sindaco di Avellino, anziché mandare i vigili a disperdere un assembramento notturno di idioti canticchianti senza mascherina, s’è messo a dirigerne lo sgraziato coro. Il Presidente Solinas, caduta nel ridicolo l’assurdità di imporre il “passaporto sanitario” per entrare in Sardegna, s’è dovuto accontentare – al pari del pugliese Emiliano e del siciliano Musumeci – di una più blanda certificazione… di sana e robusta costituzione.
In Emilia Romagna, la saggezza di Bonaccini – perché non dirlo? – ha consentito di evitare che taluni momenti di dialettica sfociassero nel cristallizzarsi di contrapposizioni permanenti.

Da questo clima ha tratto giovamento pure la nostra realtà, dove non sono mancate evidenti sintonie anche fra Amministrazioni di colore diverso.
La sola a “sdrazare”, come diceva mia nonna, è stata la Sindaca di Riccione, alquanto “smanata” (sempre mia nonna…) nell’aprire una decina di vertenze, talune davvero esilaranti.

Ha fatto sapere al mondo che il suo Comune avrebbe inoltrato ricorso alla Corte Costituzionale contro un’ordinanza del Presidente della Regione. E quando uno studente del primo anno di giurisprudenza, che passava di lì, le ha spiegato che ai Comuni non è data tale facoltà, ha allora scelto altri bersagli.

Ha aperto una vertenza con la Giunta di Rimini perché facesse decidere a lei l’utilizzo dell’ex caserma Giulio Cesare.
Al grido di “lasciate che i Lombardi vengano a me”, li ha istigati alla disobbedienza civile nel caso la loro Regione non potesse usufruire il 3 giugno dell’apertura generalizzata poi decisa dal Governo.

Dopo che sugli orari della cosiddetta movida aveva preso decisioni difformi dagli altri Sindaci, ha “cazziato” il Questore affinché imponesse lui un’ordinanza uguale per tutti i Comuni. Allorché lo studentello di cui sopra, che ripassava di lì, le ha spiegato che le ordinanze le fanno i sindaci e non i questori, ha tentato un recupero d’immagine facendo girare uno di quei suoi comunicati dalla “prosa arrancante”, per invitare il Sindaco di Milano «a fare una passeggiata sulla spiaggia a Riccione».

Si può insomma dire che la Tosi abbia rivolto la sua attenzione, per come ne è capace, ad un numero svariato di autorità istituzionali: dal Prefetto al Presidente della Provincia (non ricordo per che cosa, ma non fa niente); dal Presidente della Regione al Sindaco di Milano; dal Sindaco di Rimini al Questore.
Ha ignorato solo il Vescovo, che dicono se la sia presa.

Nando Piccari

Post scriptum
Come noto, il boss della Lega e la cornacchiante “fratella d’Italia”, col contorno di qualche residuato berlusconiano, di un codazzo di neo-nazifascisti e di un inquietante ex generale, oggi leader dei “forconi” e dei “gilet arancioni” (che entrambi fanno rima con cialtroni), hanno guidato l’abominevole contro-celebrazione romana del 2 Giugno, contrassegnata da un alternarsi di saluti romani, invocazioni al colpo di stato, infamie urlate contro Mattarella e Conte («venduti, bastardi») e stronzate del tipo «No ai vaccini. Abbracciamoci. Le mascherine fanno male».
Cosicché i pochi a indossare la mascherina erano quasi solo leghisti; i quali, pur avendo smesso da poco di cantare «abbiamo un sogno nel cuore, bruciare il tricolore», ne portavano una sul tipo mini-bandiera italiana, come quella che Salvini, il neo-fidanzato della Patria, va ostentando da giorni in televisione.
«Con il tricolore mi ci pulisco il culo», si vantava fino a ieri il leghista doc. Invece oggi, cambiata la collocazione corporale, il tricolore se lo mette in faccia, a conferma di quella regoletta che tutti abbiamo appreso già con i primi rudimenti di aritmetica, secondo cui «invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia».