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La presidente d’Italia non ha passato la nottata


29 Gennaio 2022 / Lia Celi

Tutta colpa di Enrico Mentana. Mi ha mandato a dormire venerdì sera sicura che il giorno dopo avrei visto l’elezione di una donna al Quirinale, nella fattispecie una personalità capace e apprezzata da tutti, la capa dei servizi segreti Elisabetta Belloni. Lasciatemi esprimere un’opinione che oggi suonerà un po’ sessista: sarebbe stato bello poter sfoggiare finalmente anche noi, come i paesi scandinavi e le più avanzate fra le repubbliche baltiche, una giovane e piacente signora, bionda ed elegante, alla più alta carica istituzionale. Anche l’elezione di Marta Cartabia, attuale ministro della Giustizia, sarebbe stato un bel messaggio di novità e di cambiamento. Né lei né Belloni, né tantomeno Casellati, hanno fama di progressiste, ma cosa vorrebbe dire per una bambina o una ragazza vedere nel concreto che nessun traguardo, nemmeno il più prestigioso dello Stato, è precluso a una donna, e che i suoi meriti possono essere riconosciuti tanto da portarla al massimo vertice del Paese?

Certo, con il Mattarella-bis restiamo sul sicuro, la conferma del tandem con Mario Draghi darà sicurezza ai vertici Ue e ai mercati e la non necessità di un passaggio di consegne consentirà di risparmiare tempo prezioso in un momento delicatissimo. Per carità, baciamoci i gomiti, visto che fra le alternative c’erano Frattini e Casini. Ma è un’occasione perduta.

E mi fa arrabbiare che a proporre e a sostenere delle candidate sia stata più la destra che la sinistra. Così come sembra non sia possibile che nell’area progressista possano crescere e mettersi in luce donne influenti, autorevoli e carismatiche. Al massimo brave ed efficienti «spalle», sgobbone affidabili e morigerate, abbastanza eloquenti e presentabili da essere spese nei talk show del mattino o della tarda serata.

A quelli del prime-time, i più visti, meglio mandare dei maschi. A sinistra non ci sono donne leader né a capo di una corrente; Enrico Letta ha voluto due donne capogruppo alla Camera e al Senato, Serracchiani e Malpezzi, e ha detto di sognare di lasciare la segreteria a una donna. Un sogno, appunto, perché al vertice si arriva non per la benevolenza del segretario precedente, ma grazie una macchina da guerra fatta di influenze, peso, potere vero, autorevolezza, e anche, vivaddio, con più di un pizzico di voglia di comandare – un sentimento che, stranamente, sembra essere consentito più alle donne di destra che a quelle di sinistra, le quali, appena fanno un passo fuori dal ruolo sostanzialmente ancillare di «buone compagne» pronte a sacrificare le ambizioni personali al bene del partito, vengono impallinate dal fuoco amico.

Ecco perché in Italia l’unica leader di partito è Meloni e in un piccolo partito come Forza Italia ci sono più big donne (Carfagna, Bernini, Gelmini, Ronzulli) che nel ben più grande Pd.

Va detto che il problema non è solo italiano. Anche in Francia, Inghilterra e Germania le leader fioriscono nell’aiuola conservatrice e appassiscono in quella progressista, dove c’è posto solo per timide violette, non per rose rampicanti, robuste e con la giusta dose di spine.

Lia Celi