La storia delle colonie e come recuperarle: un libro attuale di Stefano Pivato
20 Aprile 2023 / Maurizio Melucci
L’ultimo libro dello storico riminese Stefano Pivato è “Andare per colonie Estive” (Il Mulino). Vi si legge fra l’altro: «Il mare quando l’ho visto la prima volta è stato ad andare in colonia a Riccione; partivamo con le nostre valigie di cartone, i numeri sul corredo e addosso una gran malinconia… Dopo una notte a trattenere le lacrime sul treno è apparso là in fondo all’orizzonte: “Il mare, si vede il mare!” si confonde con il cielo ma è più blu, più grande, più vagabondo».
Milioni di bambini italiani, nel corso del ‘900, hanno fatto la loro prima esperienza di «vacanza» con un soggiorno in colonia. Gli ospizi per lo più marini, realizzati dapprima a scopo terapeutico su influsso della medicina positivista, si sono moltiplicati quando il regime fascista volle creare i «nuovi italiani». Furono ingaggiati i migliori architetti per progettare luoghi salubri e pedagogicamente ispirati, esempio seguito anche da molte aziende nazionali per i figli dei loro dipendenti. Nel secondo dopoguerra sarà l’associazionismo religioso e laico ad animare i tanti maestosi edifici, anche se poi il boom economico dischiuderà le porte alle vacanze individuali e per le colonie inizierà un vero e proprio «sacco edilizio». L’itinerario è contrappuntato dalle memorie dei molti bambini che di quei soggiorni ci restituiscono l’atmosfera.
Ma il libro non ci ricorda soltanto come sono nate e si sono sviluppate le colonie in Italia, ma soprattutto mette nelle condizioni gli amministratori locali di poter intervenire su quell’immenso patrimonio edilizio che oggi versa per lo più nell’assoluto degrado. Per altro stiamo parlando di edifici collocati spesso in posizioni strategiche di località balneari oppure montane. Proprio seguendo la ricostruzione storica di Stefano Pivato, che è stato anche assessore del Comune di Rimini, possiamo individuare alcune chiave di letture per il futuro.
Solo per quanto riguarda la Romagna, sono ben 247 i complessi ancora esistenti tra Cattolica e Ravenna. L’1,2% venne costruito prima del 1915, il 14,6% tra il 1915 e il 1945; ma la stragrande maggioranza, l’84,2%, fu edificata nel dopoguerra.
Scrive Pivato: “Uno dei massimi storici del Novecento, George L. Mosse, divide i monumenti in «morti» e «viventi». Volendo parafrasare lo storico tedesco, le colonie sono monumenti «parlanti» che, sia pure in gran parte oggi in rovina o destinati ad altro uso, ci restituiscono i lacerti di una storia che affonda le proprie radici nel Novecento”.
Oggi le ex colonie “parlano” ancora, ma ci giungono spesso frasi incomprensibili, rumori di fondo, equivoci storici, storie sbagliate. Pivato ci consegna, con il suo libro, una sorte di codice per tradurre il linguaggio di questi “monumenti Parlanti” e come farne uscire un messaggio di grande attualità.
La nascita e la fine delle colonie raccontano la storia del nostro Paese da fine Ottocento fino agli anni Sessanta-settanta del Novecento. “E’ la storia del costume, nelle consuetudini economiche e sociali delle famiglie per oltre mezzo secolo di storia italiana”.
E’ possibile salvaguardare, far parlare di nuovo con il linguaggio della modernità, questo grande patrimonio architettonico, storico e culturale? Si può fare e Pivato ci dà una chiave di lettura mai usata nel passato, che unisce le caratteristiche architettoniche alla storia di chi ha frequentato quei luoghi in periodi diversi della storia d’Italia.
Laddove c’è una concentrazione di colonie come la costa Romagnola, oppure la Versilia, si potrebbe pensare di recuperare parte di quegli edifici per tramandare alle future generazioni non solo una testimonianza architettonica, ma anche esperienze e modelli di colonie diverse. Un recupero ragionato che unisca la storia, il passato, con nuove funzioni a cui destinare i nuovi edifici. E’ infatti impossibile pensare di recuperare tutte le colonie e farle rivivere. Molte sono prive di testimonianza architettonica e culturale, sono monumenti “morti”.
La prima esperienza che anticipa la colonia è l’Ospizio. “Tisi, mal sottile, tubercolosi sono alcuni dei nomi – scrive Pivato – assegnati nel corso dei secoli a un morbo che, durante l’Ottocento, assume un duplice significato. Se per le classi borghesi la tisi costituisce una sorta di ambivalente espiazione-riscatto dalle dissolutezze nelle quali la donna ha trascorso la giovinezza, per le classi povere è invece una malattia da debellare”. È in questo contesto che la medicina scopre le proprietà curative del mare. E se dame nobili e borghesi seguono il dettato dell’igiene positivista, che alle abluzioni marine assegna poteri miracolosi (non ultimo quello di curare la sterilità), i bambini delle classi povere sanano i corpi malati negli ospizi marini. “I primi ospizi vengono realizzati sulle coste della Toscana e della Liguria. Successivamente sulle spiagge dell’Emilia-Romagna vengono costruiti edifici di notevoli dimensioni, sostenuti dalla filantropia privata o dalle amministrazioni comunali”-
“A Rimini nel 1907 si inaugura il sanatorio «Comasco» per la cura degli scrofolosi poveri di Como. A pochi metri di distanza, nel 1912 apre i battenti l’«Ospizio marino provinciale bolognese», una enorme struttura formata da otto padiglioni collegati fra di loro e capace di 400 posti letto, successivamente intitolata ad Augusto Murri, uno dei massimi esponenti della medicina positivista”.
La Comasca attualmente è una scuola funzionante. Mentre la Murri è un edificio con il solo “scheletro” ed in mano ad un curatore fallimentare.
“A partire dagli anni Venti – prosegue Pivato – si apre una nuova fase nel corso della quale gli originari intenti del positivismo igienista vengono sostituiti da una strategia il cui simbolo è rappresentato dalla colonia: e nella nuova istituzione la funzione curativa è sostituita da quella educativa. La colonia diviene il prolungamento estivo della scuola invernale, anzi uno dei luoghi privilegiati dell’educazione nei quali vengono trasmessi ai giovani ospiti i cardini dell’ideologia fascista: dal culto del corpo alla valorizzazione dell’identità nazionale, dalla osservanza della liturgia del littorio ai riti del militarismo. L’importanza dell’educazione impartita nelle colonie è testimoniata dalle cifre: i bambini assistiti dalle organizzazioni del regime fascista aumentano dai circa 80.000 nel 1927 ai 772.000 nel 1938. Uno sviluppo enorme al quale vanno aggiunti i 12.190 bambini ospitati nel 1937 nelle strutture gestite dalle grandi industrie. Nel 1942, infine, il regime dichiara l’apertura di 5.805 insediamenti coloniali per 940.615 bambini”.
Un numero di strutture enorme, in buona parte ancora presenti su tutto il territorio italiano.
“Mai in precedenza, come durante gli anni Venti e Trenta, una massa così ingente di bambini fra i 6 e i 12 anni si era spostata dalle case dei genitori per trascorrere la «vacanza». Il fenomeno finisce per generare, nell’immaginario comune degli italiani, l’idea di contare come i ricchi. O, quantomeno, di partecipare a svaghi un tempo riservati alle classi abbienti. E questa percezione è ben presente anche nei piccoli ospiti che appena giunti a destinazione esprimono meraviglia e stupore di fronte al gigantismo delle colonie”.
Edifici come «Le Navi» di Cattolica, la «Torre Balilla» di Marina di Massa, la futuristica «Villa Rosa Maltoni Mussolini», erano stati messi a disposizione di controllate forme di fruizione popolare. “Non a caso le riviste di architettura degli anni Trenta sottolineano che lo scopo che si propongono i progettisti è quello di dare ai piccoli ospiti un ricordo delle strutture «che rimanesse indelebile nella loro memoria anche per l’originalità dove hanno vissuto questo periodo della vita». In soli nove mesi viene realizzata la colonia «Le Navi» di Cattolica, vero e proprio capolavoro dell’architettura razionalista”.
“Appena 120 giorni dura la costruzione della «Novarese», futuribile edificio a forma di nave capace di ospitare 1.000 bambini a partire dall’estate del 1934”,
Pivato ricorda il metodo di costruzione: “Un vantaggio non secondario per favorire la rapidità della costruzione risiede nell’utilizzo di materiali innovativi: il ferro, il vetro e soprattutto il cemento armato consentono di coprire vaste superfici in tempi rapidi e dunque costituiscono un risparmio notevole nei tempi di esecuzione delle opere. Il calcestruzzo rivoluziona i metodi costruttivi poiché il suo utilizzo consente la realizzazione di edifici di notevoli dimensioni senza le limitazioni dei tradizionali elementi strutturali e permette inoltre di creare spazi interni indipendenti dalla struttura portante dando vita così ad ambienti sopraelevati rispetto alla linea di terra”.
Le Navi di Cattolica oggi ospitano un importante Acquario.
La Novarese è di proprietà di Rimini Terme ed in attesa di investitori per il recupero della struttura e del parco attorno alla ex colonia.
Queste colonie, che hanno vissuto esperienze diverse, dalla cura dei primi del Novecento al periodo fascista fino al dopoguerra, meritano ogni sforzo per essere recuperate in tutti i loro aspetti.
Finita la guerra, finito il gigantismo del fascismo, si apre una nuova esperienza delle colonie. Anche in questo caso la lettura di Pivato è importante per l’attualità. “I promotori della nuova stagione postbellica sostengono che ai fini assistenziali non avevano giovato nel passato la grandiosità dei locali, lo splendore dei marmi decorativi e tutto ciò che aveva teso a dare l’idea di fasto piuttosto che di quella praticità e serietà ritenute una garanzia anche di buon gusto. Per questo, in occasione della costruzione dei nuovi edifici adatti a ospitare le colonie, si raccomandano criteri quali l’economicità, il risparmio e l’essenzialità. Tutte caratteristiche che aprono una nuova stagione, non più caratterizzata dal gigantismo e dal linguaggio architettonico magniloquente degli anni Trenta, ma rispondente a criteri di essenzialità e frugalità”.
Ma quante sono le colonie in Romagna? Lo storico Pivato ci consegna un quadro puntuale, forse inedito e molto interessante.
“Nel tratto di spiaggia fra Ravenna e Cattolica, il sito a più alta densità di colonie in tutto il territorio nazionale, i censimenti rivelano che su 247 complessi ancora esistenti negli anni Ottanta del Novecento, l’1,2% viene costruito prima del 1915, il 14,6% tra il 1915 e il 1945 e l’84,2% nel dopoguerra. Si tratta di percentuali verosimilmente applicabili a tutto il territorio nazionale e che rivelano che il massimo sforzo finalizzato all’assistenza dell’infanzia attraverso le colonie si produce nel secondo dopoguerra.”
“Fra queste architetture anonime spicca a Cesenatico un edifico progettato da un non ancora trentenne Paolo Portoghesi, non ancora archistar del panorama internazionale. È la colonia ENPAS (Ente nazionale di previdenza e assistenza statali) inaugurata nel 1962”.
“Sullo stesso linguaggio architettonico si muove il progetto di Giancarlo De Carlo, esponente di primo piano di quell’edilizia partecipata che infrange i canoni della generazione precedente e che porta alla realizzazione della colonia commissionata dalla Società idroelettrica piemontese (SIP) a Riccione. Realizzato fra il 1960 al 1963, l’edificio è concepito da De Carlo per favorire la partecipazione dei bambini alla vita di gruppo e si distacca dall’imponenza e dall’austerità pensata per l’educazione al rigore del periodo fascista”.
“A Forte dei Marmi, si trova un immaginario cimitero delle colonie. Nell’estate del 1944 infatti, quasi tutti gli edifici che avevano ospitato i bambini vengono demoliti dai tedeschi perché ostruiscono la visuale e la linea di tiro delle artiglierie. Forte dei Marmi è la località che patisce il maggior numero di distruzioni di colonie”.
Altri abbattimenti avvengono nel dopoguerra in varie parti d’Italia e sulla costa romagnola.
Ma il dato prevalente è che “nelle zone con litorale sabbioso, a partire dal secondo dopoguerra fortemente alterato da forme di sfruttamento turistico (alberghi e/o stabilimenti balneari), le colonie estive, vuoi per l’indecisionismo (in questo caso lodevole) delle amministrazioni comunali, vuoi per le norme che hanno tutelato gli edifici riconosciuti come patrimonio artistico, hanno agito come contenimento contro una speculazione edilizia selvaggia favorendo un’azione di tutela nei confronti della vegetazione”.
Arriviamo ai giorni nostri.
Sul nostro litorale, da Cattolica a Ravenna buona parte delle colonie è ancora in attesa di un recupero che permetta loro di poter tornare di nuovo a “parlare”. Le norme stringenti dei vincoli della Soprintendenza dei beni architettonici ed ambientali e le norme del PTPR (Piano Territoriale Paesaggistico Regionale dell’Emilia-Romagna), permettono di fatto solo recuperi architettonici degli edifici e recupero ambientale delle aree di pertinenza.
In base a queste norme, le colonie marine vengono suddivise in tre categorie:
- Gli edifici delle colonie marine di interesse storico-testimoniale di complessivo pregio architettonico sono i seguenti: 1. Le Navi, Cattolica 2. Ferrarese, Cattolica 3. Reggiana, Riccione 4. Novarese, Rimini 5. Ferrovieri OPAFS, Bellaria 6. AGIP, Cesenatico 7. Varese, Cervia 8. Monopoli di Stato ex Montecatini, Cervia 9. Croce Rossa, Ravenna 10. Burgo, Riccione 11. Bolognese, Rimini 12. Murri, Rimini 13. Comasco-De Orchi, Rimini 14. Patronato scolastico, Rimini 15. Forlivese, Rimini 16. Soresinese, Rimini 17. Fratelli Baracca/Bergamasca, Cesenatico 18. Veronese, Cesenatico 19. Centro climatico marino, Cervia.
Gli interventi ammessi per gli edifici di cui al presente comma devono essere coerenti con i criteri e i metodi del restauro finalizzati a mantenere l’integrità materiale, ad assicurare la tutela e conservazione dei valori culturali e la complessiva funzionalità dell’edificio, nonché a garantire il suo miglioramento strutturale in riferimento alle norme sismiche.
- Gli edifici delle colonie marine di interesse storico-testimoniale di limitato pregio architettonico sono i seguenti: 20) Fusco, Misano 21) Bertazzoni, Riccione 22) Primavera, Riccione 23) Adriatica Soliera-Carpi, Riccione 24) OPAFS Ferrovieri, Riccione 25) Villa Margherita, Rimini 26) ENEL, Rimini 27) Villaggio Ragazzi Bresciana, Rimini 28) soppresso 29) Lanerossi, Gatteo 30) Opera Bonomelli, Cesenatico.
Per gli edifici delle colonie di cui al presente comma il progetto deve individuare gli elementi architettonici di pregio che devono essere conservati, attraverso il loro restauro, in rapporto spaziale e volumetrico coerente con l’assetto originario dell’edificio.
- Gli edifici delle colonie marine privi di interesse storico-testimoniale incompatibili o scarsamente compatibili con le caratteristiche dell’ambito territoriale cui ineriscono, sono i seguenti: 31) Villa Il Germoglio, San Mauro 32) S. Monica, Cesenatico 33) Casa del Mare, CIF di Parma, Cesenatico 34) Madre di Dio, Cesenatico 35) Ministero degli Interni, Cesenatico 36) Don Bosco, Cesenatico 37) Mediterranea, Cervia.
Gli edifici delle colonie marine privi di interesse storico-testimoniale, compatibili con le caratteristiche degli ambiti territoriali cui ineriscono sono tutti gli edifici delle colonie marine esistenti, diversi da quelli elencati ai precedenti commi.
Complessivamente sulla costa romagnola vi sono 27 colonie che pur con diversi gradi di tutela sono comunque da mantenere. Ora la domanda. Il mercato pubblico e privato è in grado di recuperare questo ingente patrimonio edilizio ed ambientale? Vi possono essere delle colonie dove il valore dell’area è più importante del valore testimoniale dell’edificio? Penso proprio di sì. A distanza di oltre 20 anni dall’ultima modifica alle norme regionali sulle colonie una ricognizione puntuale delle singole strutture non ancora recuperate (praticamente tutte) penso vada fatta. I vari tentativi di questi anni di riqualificare il patrimonio delle ex colonie è fallito per ragioni diverse. Dalle Reggiana alla Novarese, alla Murri e all’Enel. Sembra potersi sbloccare la Bolognese, acquisita all’asta da un imprenditore che la vuole trasformare in un hotel 5 Stelle. Anche in altre parti della costa le cose non vanno meglio. Ricordo l’ex colonia Veronese trasformata nel Grand Hotel Da Vinci di Cesenatico.
Non c’è da stupirsi se le ipotesi principali di recupero delle ex colonie riguardino alberghi.
Le destinazioni ammissibili sono:
- attività ricettive specialistiche, intese come le attività volte a rispondere alla domanda di soggiorno temporaneo, in strutture a gestione unitaria;
- attività ricettive ordinarie, intese come attività volte a rispondere alla domanda indifferenziata di soggiorno temporaneo in strutture a gestione unitaria ed a rotazione d’uso, ed articolate in: alberghi, hotel, pensioni e locande, residenze turistico-alberghiere, ostelli, cliniche della salute;
- abitazioni collettive, intese come le abitazioni volte principalmente a dare alloggiamento ed a consentire lo svolgimento di peculiari attività a determinate comunità o gruppi, quali collegi, convitti, studentati, ospizi e ricoveri;
- strutture culturali e per il tempo libero, comprensive di ogni attrezzatura complementare, di servizio e di supporto, articolate in centri di ricerca e di documentazione, scuole, musei, sedi espositive, biblioteche, archivi, cinema multisala, scuole di vela, palestre, piscine, centri giovanili per scambi internazionali;
- attrezzature complementari alla balneazione anche commerciali e servizi di terziario avanzato di supporto all’attività turistica;
Se si escludono le funzioni ricettive con relativi servizi (commperciali ad esempio) che riguarda un’attività privata, le restanti destinazioni ammesse per il recupero delle colonie sono di fatto riservate a funzioni sociali o pubbliche che richiedono nella migliore delle ipotesi un rapporto pubblico-privato importante anche sul piano finanziario. Altre funzioni sono esclusivamente d’interesse pubblico.
Non credo che nelle colonie da recuperare si debbano prevedere anche le residenza . Sarebbe troppo facile trasformare in appartamenti luoghi tra i più pregiati della costa. E’ già stata data una possibilità concreta con il cond’hotel, ma rimanendo all’interno della destinazione ricettiva. Perché queste colonie possano continuare a “parlare” debbono poter svolgere una funzione pubblica o d’interesse pubblico, altrimenti si sancisce la loro morte culturale, storica, testimoniale e d’attualità.
Per queste ragioni, è molto più interessante una ricognizione della situazione attuale, con un elenco puntuale delle colonie da salvaguardare. Sicuramente tutte quelle “di interesse storico-testimoniale di complessivo pregio architettonico”. Una valutazione più approfondita per le “colonie marine di interesse storico-testimoniale di limitato pregio architettonico”.
Riterrei opportuno che la Regione sbloccasse gli edifici delle colonie marine privi di interesse storico-testimoniale, che potrebbero essere anche demolite senza rimpianti: certamente evitando speculazioni immobiliari, ma valorizzando le aree per recuperi ambientali di pregio.
Maurizio Melucci