La storia non si corregge, semmai si fa (se si è capaci)
13 Giugno 2020 / Lia Celi
Con l’aria che tira su entrambe le sponde dell’Atlantico, anche Rimini deve fare un esame di coscienza monumentale. Non nel senso delle dimensioni, ma proprio dei monumenti. Quante statue che decorano la nostra città sono intitolate a personaggi che non hanno condiviso i valori morali e civili che caratterizzano la nostra società? Quanti luoghi — strade, piazze, giardini – sono stati dedicati a gente che in qualche occasione ha violato i diritti umani?
In America sono nel mirino le statue di Cristoforo Colombo, che non solo era un «cacciaballe» come nell’omonima commedia di Dario Fo ma, lo riconoscono anche gli storici non terzomondisti, anche un crudele razzista. Gli abitanti di Bristol, oggi nota per lo più per l’omonimo cartoncino, si sono accorti dopo più di un secolo di aver dedicato una statua a un tycoon del traffico di schiavi e l’hanno buttata nelle acque del porto, mentre a Londra i monumenti a Winston Churchill sono state impacchettate per proteggerle da chi vede in lui non il vincitore di Hitler ma lo spregiatore di indiani e palestinesi. E a Milano c’è chi contesta l’effigie di Indro Montanelli, che non solo fu fascista, ma che, all’epoca dell’invasione dell’Etiopia, di tutte le usanze locali ne adottò entusiasticamente solo una, quella di sposare una dodicenne infibulata, che il futuro fondatore del Giornale deflorò con la fattiva collaborazione della suocera.
Qui a Rimini non siamo messi tanto meglio, tra Giulio Cesare che fra le tante cose fu genocida (un milione e duecentomila morti solo in Gallia stando a Plinio il Vecchio) e Sigismondo Malatesta, che oltre a essere un sanguinario condottiero ebbe mogli e amanti non molto più adulte della moglie di Montanelli, ed è stato accusato di averne ammazzata una. Perfino l’insospettabile Augusto divenne clemente solo dopo aver bevuto il sangue dei suoi nemici politici.
Però la nostra città ospita anche un esempio della lunghissima tradizione della «damnatio memoriae»: il ponte di Tiberio, dalle cui pietre è stato scalpellato via il nome dell’imperatore che lo inaugurò, il famigerato Caligola. Il completamento del nostro ponte era probabilmente una delle poche cose buone che aveva fatto nei suoi quattro anni di regno, iniziato sotto i migliori auspici e finito malissimo. Oggi troveremmo delle scuse per un povero ragazzo cresciuto negli accampamenti, con una famiglia allargata disfunzionale in cui tutti cercavano di ammazzarsi a vicenda, ma l’opinione pubblica del I secolo andava meno per il sottile.
Del resto la Storia offre ben poche personalità prive di scheletri nell’armadio: il potere e la fama costano delitti e compromessi, e un eroe senza macchia nella vita pubblica può avere una vita privata discutibile o perfino ripugnante, secondo i nostri criteri. Probabilmente tre quarti della nostra toponomastica sono fatti di gente che sotto sotto tradiva il coniuge, o sculacciava i figli, o frequentava occasionalmente i bordelli, o era tendenzialmente xenofoba o maltrattava cani e gatti o era apertamente sessista, o tutte queste cose insieme.
Correggere la storia è impossibile quanto trovare un uomo totalmente buono o cattivo: perfino papa Giovanni non le ha fatte tutte giuste. Il fatto è che quando diventi un monumento o una targa, o dài il tuo nome a una via o a una piazza, non sei solo un personaggio notevole, ma assurgi alla dignità di santo laico, anche se sei stato un generale che come minimo ha provocato qualche migliaio di morti (e che altro dovevi fare, in guerra?).
E il problema non tocca solo gli esseri umani. Anche chiamare una via con il nome di una pianta può essere irriguardoso verso certe categorie: come devono sentirsi gli allergici ai pollini quando passano in via del Pioppo? E come mai ci sono tante strade dedicate alle prede – via del Camoscio, del Cervo, del Capriolo, ecc. – e così poche dedicate agli animali predatori, che ammazzano solo per mangiare, a differenza dei generali? I giapponesi, che non dànno nomi alle loro strade, forse complicheranno un po’ la vita ai turisti occidentali ma alla fin fine hanno fatto la scelta più giusta.
Lia Celi