Se l’amore per gli animali è l’alibi per odiare per l’umanità
28 Aprile 2019 / Lia Celi
«Cani e padroni di cani, vorrei stringervi le mani molto forte con uno strumento di tortura e di morte», cantava qualche anno fa Elio, dando voce all’insofferenza di chi pesta le deiezioni canine non raccolte dai proprietari del quadrupede, in spregio alla legge, alla buona educazione e all’igiene pubblica.
(La legge, fra l’altro, oggi imporrebbe di sciacquare pure le pisciate dei cani, che tanto innocue non sono: odore a parte, alza la gamba oggi, alzala domani, le colonne dei portici di piazza Tre Martiri sono ridotte peggio dei ruderi della Casa del Chirurgo).
L’inno di Elio potrebbe essere adottato da un’altra categoria insofferente non tanto ai cani, quanto alla crescente tracotanza di (alcuni) padroni. Mi riferisco ai negozianti, che ormai devono dare libero accesso nelle loro esercizi a quattrozampe di tutte le forme e dimensioni, per lo più senza museruola, e se osano fare rimostranze vengono coperti di improperi.
E dico «devono» perché, a quanto pare, negare l’ingresso ai cani significa ridurre di un buon quaranta per cento la clientela. Perfino al Conad è stato eliminato il cartello «qui noi non possiamo entrare», che, sì, dava luogo a scene strazianti anche per i meno cinofili – il cagnolino legato col guinzaglio alla ringhiera delle scale che guaiva disperato o scrutava con occhio umido il ritorno della padrona – ma garantiva agli acquirenti la sicurezza di non acquistare generi venuti a contatto con zampe o musi venuti a loro volta a contatto con superfici molto amate dai cani: cacche di altri cani, genitali o sederi di altri cani.
Che, vabbè, saranno pure tutti anticorpi, la completa asetticità non esiste nemmeno negli ospedali (in alcuni dei quali, peraltro, oggi i pazienti possono essere visitati dai loro amici pelosi), però, via, molti preferirebbero mantenere una certa distanza fra i cani altrui e ciò che metteranno in tavola a casa propria.
Ma oggi va così: un negoziante rischia meno l’impopolarità ad appendere un avviso «qui noi non possiamo entrare» rivolto agli allergici ai cani.
Ora: tutti siamo d’accordo che un cane beneducato è molto più urbano, simpatico e frequentabile di parecchi umani di nostra conoscenza. Ma un cane beneducato è il risultato di una combinazione di fattori, naturali, sociali e caratteriali, dell’animale ma soprattutto del suo proprietario; combinazione che non si verifica di frequente, o meglio, si verifica sempre meno di frequente.
Mentre è segno di evoluzione dei costumi l’aumento di hotel, locali e spiagge attrezzate per chi non vuole separarsi dal suo animale da compagnia, è un sintomo di imbarbarimento l’arroganza o l’atteggiamento vittimistico e passivo-aggressivo di chi vuole imporre a tutti i costi la presenza di un cane magari grosso e zannuto in un negozio di alimentari, e non si capacita che qualcuno possa avere dei problemi.
Come se chi ha paura dei cani (perché è stato morso da piccolo, per esempio) avesse meno diritto al rispetto di uno che non riesce nemmeno ad andare a comprare il pane portarsi dietro un rottweiler da un quintale. Il ribaltamento è così totale che oggi ci si aspetta che sia l’uomo a fare le feste al cane; se non gliele fa, è l’uomo a dover essere affidato a un addestratore.
Non ci vengano a raccontare che certi eccessi sono frutto dell’amore sincero per gli animali: piuttosto sembrano l’ennesima maschera della sociopatia dilagante, fatta di risentimento e di sfiducia verso i propri simili, che usa anche bestie innocenti come pretesto e strumento. Un po’ come certi vegani che, in nome della salvezza degli animali, sperano nell’estinzione del genere umano.
Lia Celi