Home___primopianoLo scolaro riminese Ciccio Forlivesi che scappò con la bici della mamma per vedere il Giro d’Italia a Trento

Pluriripetente in quinta elementare, senza dir nulla a nessuno scomparve dalla sua casa di via Balilla per essere alla tappa del Monte Bondone


Lo scolaro riminese Ciccio Forlivesi che scappò con la bici della mamma per vedere il Giro d’Italia a Trento


19 Luglio 2023 / Enzo Pirroni

Nella primavera del 1957 frequentavo la quinta classe elementare alle scuole Tonini. La maestra si chiamava Angelina Cardelli, proveniva da San Leo ed era stata una compagna di scuola di mia madre. In quel tempo deliravo per il ciclismo. Passavo le giornate a “studiare” gli ordini d’arrivo, imparavo a memoria i nomi dei corridori, mi deliziavo alla vista delle cartine altimetriche e sognavo leggendo la prosa mielosa e pretesca del cardinalizio Bruno Raschi o quella obliqua e scontorta di Attilio Camoriano.

Nel frattempo mi esercitavo, tenendo un bicchiere in mano a mo’ di microfono, nell’arte della radiocronaca, cercando di imitare Mario Ferretti. Durante il Giro d’Italia, la mia frenesia toccava l’apice. Restavo come ipnotizzato, per lunghi pomeriggi, davanti alla radio, in attesa del collegamento ed intanto trasmettevano musica leggera: la voce di Giorgio Consolini si alternava a quella di Tonina Torrielli, quella di Gino Latilla a quella di Tullio Pane… 

Poi la musica cessava e Ferretti partiva per quei lunghissimi, magnetici assolo che erano cronaca, epopea, fantasia e finzione. Bastava l’allungo di un Vim Van Est qualunque, perché la mia immaginazione mettesse in scena chissà quali sfracelli. A scuola ero insofferente e distratto e nulla riusciva a distogliermi dalle mie fissazioni. Avrei voluto coinvolgere e far partecipi anche i compagni a questo mio frenetico interesse ma i più si ritraevano lanciandomi un mariolesco sguardo di sberleffo. Nell’ultimo banco, solitario, con il suo faccione da luna piena, perso nel nulla, con gli occhi buoni che lasciavano trasparire un’assoluta apatia, stava seduto, assolutamente disinteressato a tutto ciò che accadeva intorno a lui, Ciccio Forlivesi.

Aveva costui qualche anno più di noi, poiché incidenti di percorso l’avevano obbligato a ripetere alcune classi. L’unica sua preoccupazione, durante le ore di lezione, era quella di guardare oltre i vetri della finestra. Ammirava come rapito i piccioni che si azzuffavano disputandosi un lombrico, cercava scorgere, attraverso lanosi cirri di nebbia, il pettirosso, del quale udiva appena il cinguettio, seguiva rapito il via vai delle arzille vecchiette col capo gonfio di bigodini le quali tornavano con le sporte ribollenti dal vicino mercato ortofrutticolo e quando, nelle mattinate invernali, la canutiglia argentea dei rachitici tigli, si andava sfilacciando nell’interminabile bruma rivierasca, si sollazzava a contare le rare automobili che, con copiosi ed abbondevoli sbuffi, transitavano incerte sulla strada gelata.

Ai rimproveri, in verità reiterati, della maestra la quale, lo riprendeva violentemente investendolo con male parole: “Forlivesi, (in quei tempi anche alle elementari gli insegnanti si rivolgevano agli alunni chiamandoli soltanto col cognome) dovresti guardarti allo specchio. Allora sì che vedresti la tua bella espressione di scimunito! Sei il ragazzo più stupido che vi sia al mondo. Sei grande e chiamarti scemo è farti un complimento!”. Il povero Ciccio, a questa gragnuola di oltraggi opponeva l’incolume sorriso dei suoi occhi bonari che irradiavano tenerezza e l’incoscienza che trapelava dal suo volto rotondo, di fronte ai putiferi da lui suscitati, equivaleva ad una prova di assoluta innocenza. La di lui sostanza bamboccia, l’infantilismo che lo pervadeva, la sua incommensurabile flemma gli permettevano di affrontare le situazioni più disperate senza il menomissimo sconcerto della sua anima.

Ciccio è il primo da sinistra seduto sulla mura

Un giorno, mentre in frotte, tornavamo a casa (anche Ciccio come me abitava nei palazzoni di via Balilla, veri e propri inni alla lugubrità dell’architettura popolare), prendendo a calci la mia Gazzetta dello Sport, che dopo averla letta e riletta avevamo artatamente appallottata, Ciccio mi si avvicinò, e con grandissima mia sorpresa, mi domandò quale, secondo me, fosse la tappa in cui si sarebbe deciso il Giro d’Italia. Contento di poter esibire il mio sapere, con sussiego infantile, mi profusi in mille considerazioni una più peregrina dell’altra e dissi che sicuramente la Como – Trento Bondone, sarebbe risultata la tappa chiave e che il lussemburghese Charly Gaul, l’angelo della montagna, il corridore che l’anno precedente aveva scritto, sempre su quelle stesse strade, una delle pagine di leggenda più mitiche di tutta l’epopea ciclistica, avrebbe attaccato sicuramente e nessuno sarebbe stato in grado di resistergli.

Già che c’ero, diedi la stura alla mia fantasia infocata descrivendo (senza mai averli visti) i paesaggi alpini. Ne scaturì una vera e propria geografia omerica. Per me il ciclismo era, come nell’Odissea, un periplo di prove ed una esplorazione dei limiti terrestri. In tal modo il Monte Bondone diveniva un supremo dio del male il quale esigeva sacrifici umani. Il freddo, l’asperità dell’ascesa ne facevano un terribile Moloch, che nulla perdonava ai deboli. Un vero e proprio terreno del diavolo, una palestra nella quale si misuravano gli eroi, qualcosa come un inferno in cui tutti i ciclisti avrebbero dovuto definire la possibilità della loro individuale salvezza.

E nello stesso tempo gli dicevo dei corridori, di come Luison Bobet fosse un duro, una specie di Prometeo capace di sostenere sforzi terribilmente prolungati. Gli descrissi Raffaele Geminiani, che aveva nome e cognome italiani ma che in realtà era francese, il biondo André Darrigade, l’uomo dell’ultimo chilometro, un cerbero dai muscoli ribollenti, capace di vincere volate tumultose,  Miguel Poblet, il velocista calvo che assomigliava più ad un impiegato delle poste che ad un asso dei pedale e poi Charly Gaul, il mio idolo, il vero ed unico arcangelo della montagna, un giovane dagli occhi azzurri, dal fisico gracile ed insolente al quale gli dei avevano offerto il dono della leggerezza. Per la facilità che possedeva nell’involarsi con estrema grazia sui picchi più impervi, mentre faceva ruotare come eliche le sue esili gambette, Gaul partecipava dell’aquila e dell’elicottero, un essere mitico capace di prendere a gabbo le leggi della gravitazione terrestre e di vincere il freddo, l’acqua, il gelo… 

Gli amici di Ciccio. Palazzoni di via Balilla, 1956

Ciccio ascoltava con gli occhi socchiusi, mentre le falde del nero grembiule scolastico gli spenzolavano addosso come le giubbe di scena di un clown. In queste spoglie di perfetto incantato, gonfio al pari di una vescica di sugna, simile a Grock o a Pipo, egli aveva già presa la decisione: sarebbe andato sulle Dolomiti. Ci sarebbe andato in bicicletta. Avrebbe partecipato in prima persona a quello spettacolo grandioso. Solo i filistei hanno bisogno di occasioni ben ordinate, di combinazioni propizie, a lui non serviva altro che una bici per recarsi lassù su quelle strade che accarezzavano i precipizi. Avrebbe pedalato tra campi, valli, avrebbe percorso rettilinei assolati, avrebbe attraversato paesi e città ed avrebbe visto da vicino quei campioni dei quali io, con enfasi infantile, gli declamavo le gesta.

D’altra parte Ciccio non era nuovo ad imprese bislacche e maldestre. Una pomeriggio, mentre si tornava a casa dopo aver assistito ad una proiezione cinematografica che aveva avuto luogo nel teatro parrocchiale di San Giovanni Battista, commentando ammirati le imprese ginniche compiute da Tyrone Power, che impersonava Zorro in un vecchio film del 1940 Ciccio, se ne scappò fuori affermando che gesti come quelli di saltare da un ponte sopra una carrozza erano possibilissimi. Si trattava soltanto di avere un po’ di fegato. Ci avrebbe fatto vedere lui come si faceva. Noi, sulle prime, lo deridemmo, poi cercammo di dissuaderlo (non so con quanta convinzione), ma lui sicuro di trasformare in atto eccezionale la tensione della quale, in quel momento era in preda, perso nell’ inestricabile assurdità dei suoi pensieri, senza porre tempo in mezzo, aveva immediatamente scelto il luogo nel quale compiere l’impresa.

Recatosi al sottopassaggio della ferrovia sul viale della Stazione, non senza difficoltà s’arrampicò sul ponte di ferro e lì stette in attesa che sopraggiungesse una qualche automobile scoperta o chissà quale altro veicolo. Quanto tempo restò in attesa? Difficile dirlo. Staccandosi dalle crepe delle bitte consunte del porto canale, strillanti gabbiani prima s’impennavano per poi cadere in candela nell’acqua salmastra disseminata di chiazze oleose. Le ombre della sera avevano già invaso tutto il Borgo Marina quand’ecco sopraggiungere il Dodge furgonato di Lungo. Era costui un gigante che di mestiere faceva il camionista. Ininterrottamente, durante la giornata, effettuava viaggi, caricando sul suo malandato autocarro ogni sorta di oggetti: legname per costruzioni, mobili, laterizi. Era quel vecchio camion il ricettacolo di tutti gli aggeggi inutili, stantii, il luogo sul quale si ammassavano vecchi arnesi inquietanti e le ciarpe e cianfrusaglie più disparate. Procedeva sferragliando. “Ecco – pensò Ciccio – questa sì che è l’occasione giusta”.

Quando il Dodge gli parve a tiro, Ciccio, spiccò il salto. Forse non calcolò bene i tempi. Forse non tenne conto che il camion, pur lentamente, si muoveva. Fatto sta che Ciccio rovinò in basso sbattendo violentemente il volto contro la sponda posteriore del cassone. Cadde a terra come morto. Venne ricoverato al vecchio ospedale (fu lo stesso Lungo a condurcelo). Passò diverso tempo tra la vita e la morte. Venne poi trasferito in una clinica a Bologna. Ci dissero, in seguito, che si era procurato una frattura condilo mandibolare ed una forte commozione cerebrale. Ci mise diversi mesi prima di riprendersi. Come ricordo di quella mattesca esperienza gli restò un occhio perennemente socchiuso e quattro incisivi perduti.

La mattina del  6 Giugno 1957, Ciccio non venne a scuola. L’avevano visto uscire di casa pedalando sulla bicicletta della madre ed era sparito. Invano lo attesero per il pranzo. Quando anche alla sera non si era fatto vivo i genitori, preoccupatissimi, si erano rivolti ai carabinieri e la ricerca era partita. Passarono altri due angosciosissimi giorni prima che Ciccio facesse ritorno. La sua rentrée non fu affatto gloriosa. Lo riportarono a casa due sussiegosi rappresentanti delle forze dell’ordine e lui come Pinocchio se ne stava quieto e perplesso in mezzo a loro con la sua faccia paffuta ed il suo morbido, candido sguardo d’agnello. Della bicicletta materna non se ne seppe più nulla né Ciccio volle, in seguito, parlarne. L’avevano ritrovato sperduto e sicuramente affamato nei pressi di Castello Tesino. Si rifiutò ostinatamente di spiegare in che modo fosse arrivato fin lassù e come avesse trascorso i suoi giorni di suiveur.

Spese gli ultimi spiccioli dell’anno scolastico (esame compreso) isolato nel solito banco, intento a guardare al di là della finestra, finché un giorno mi si avvicinò dicendomi che lui l’aveva visto il passaggio della tappa sul Monte Bondone e non c’era la neve né faceva freddo e che Charly Gaul, che indossava la maglia rosa, era transitato su quella salita dopo gli ultimi, quindi con aria di complicità mi mise nelle mani un mazzetto di cartoline pubblicitarie dell’Amaro Cora. “Tieni – disse – queste le gettavano dalle macchine della carovana  prima dell’arrivo dei corridori. Tienile tu”.

Ciccio così imbelle e commiserevole apparve, in quell’occasione, ai miei occhi, come un eroe che aveva compiuto la grande impresa. In verità alla partenza della diciottesima tappa (la Como – Monte Bondone) Charly Gaul era in maglia rosa con 56” su Gastone Nencini e 1’ 17” su Luison Bobet. Dopo un centinaio di chilometri, Gaul e Bobet decisero di fermarsi per fare pipì, ma il francese quando vide il piccolo Gaul intento a mingere ripartì proditoriamente scatenando l’offensiva di Nencini, Geminiani e Poblet. Fu così che Poblet (un velocista) si aggiudicò la tappa con un vantaggio di 1’26” su Baldini (che era al suo primo Giro d’Italia) e Bobet e 1’38” su Nencini. Charly Gaul arrivò al traguardo con un ritardo di 10’, imprecando contro Bobet che gli aveva tirato un colpo basso. Tuttavia il Luson national non vinse quel Giro: la maglia rosa passò sulle spalle di gastone Nencini che la conservò per 19” sino a Milano. La sera a cena, Learco Guerra, il direttore spotivo di Gaul, riprese aspramente il suo corridore: “Così hai fatto la pissette! Bravo merlo! La prossima volta ti regalo un “pappagallo” in tal modo eviterai di fermarti!”. In seguito, Ciccio ed io prendemmo strade diverse. Non lo rividi più. Quante cose, quante persone scompaiono. A penasarci bene mi accorgo che si scrive soprattutto per caparbietà non rassegnandosi che tutto finisca tra le “cianfrusaglie di Chronos”.

Enzo Pirroni