Giovanni Piccioni, l’ultimo soldato del Papa Re: “E non chiamatemi brigante”
22 Gennaio 2023 / Paolo Zaghini
Pietroneno Capitani: “Io. Giovanni Piccioni. Una vita da brigante” Libri dell’Arco.
Ancora il brigante Giovanni Piccioni per la penna di Pietroneno Capitani. Nel romanzo “Le ultime ore di Civitella. Con il brigante Piccioni alla ricerca dell’amore” (Primiceri Editore, 2020) la storia di Piccioni costituiva lo sfondo storico in cui era ambientato la ricerca della propria donna da parte di Vincenzo Leone, il protagonista del racconto, durante l’assalto dei piemontesi all’ultimo baluardo borbonico/papalino, la fortezza di Civitella, al confine tra Marche e Abruzzo, a fine marzo 1861.
In questo nuovo libro di Capitani invece troviamo Piccioni incarcerato dai piemontesi nel forte Malatesta ad Ascoli: “Mi hanno portato qui, a me, Giovanni Piccioni, capo dei cosiddetti briganti, dopo che mi hanno arrestato a San Benedetto. Prima mi hanno riempito di botte, mi hanno interrogato e poi, dentro un carro coperto, incatenato e dolente, mi hanno portato qui e messo in questa cella nascosta, stretta, chiusa da due porte, ben guardato per evitare ogni tentativo di fuga”.
E attraverso un racconto autobiografico (romanzato ma non troppo) ci viene narrata la sua storia: “Questo carcere lo ha voluto il Papa. Fino a qualche anno fa era pieno, oltre che di delinquenti comuni, di repubblicani o liberali, sì, insomma di anti Dio, che combattevano contro il mio signore, il Papa Re. Oggi, con il nuovo Stato, hanno rinchiuso noi, che abbiamo avuto il torto di aver difeso il nostro sovrano dagli invasori, ‘li paranzù’, che parlano una lingua che non si capisce. Briganti ci chiamano (…). Io ho combattuto chi ha attaccato il mio Stato, quello Pontificio e, d’altra parte, sono maggiore degli Ausiliari, e sono stato Priore, sindaco del mio Paese, Montecalvo, e un soldato… Che tutti i soldati che perdono la guerra vengono o sono stati forse incarcerati? Ma si sa, chi vince ha sempre ragione, anche quando non ce l’ha”. Piccioni, dopo la cattura, venne condannato ai lavori forzati”.
Dando la voce a Piccioni, Capitani ricostruisce una controstoria del Risorgimento italiano, che non è quella dei vincitori piemontesi: “Dal punto di vista politico la situazione era sempre difficile. Il nostro Stato era sotto la costante minaccia. Interna dei banditi liberali quando, Dio ci scampi, non repubblicani, ed esterna. Per fortuna il Papa aveva alleati potenti, di volta in volta i francesi o gli alemanni, gli austriaci”.
E Piccioni combattè a lungo contro i soldati piemontesi fra il 1859 e l’estate del 1861. E prima aveva combattuto nel 1849 contro i “rivoluzionari” sostenitori della Repubblica romana ad Ascoli, uno scontro vincente durato tre mesi.
“Non ero brigante nemmeno quando mi hanno richiamato ad avversare i piemontesi, in una guerra che, dovevo capirlo prima, era persa prima di iniziare. Troppa differenza negli armamenti, nella qualità e nella quantità delle forze”.
“Le mie bande erano composte di almeno 1500 uomini (…). La mia soldatesca era reclutata alla meno peggio. Il grosso, e doveva essere la più convinta, veniva arruolata dai parroci e dai curati”. “Mantenere l’ordine e la disciplina in una siffatta masnada, impreparata, solitamente analfabeta, che parlava quasi solamente dialetto, era praticamente impossibile”. “Mi venivano riferiti di soprusi, grassazioni e angherie nei confronti delle mie genti, dei montanari, di quelli che ci accoglievano e ci sostenevano. Non lo potevo sopportare, noi avevamo bisogno di quella gente e del loro sostegno per continuare la nostra guerra”.
Per due anni, sino a fine 1863, Piccioni si nascose ai piemontesi che gli diedero una caccia senza tregua. “La continua fuga è l’unico mezzo per continuare a vivere. Durerà una settimana, un mese, un anno, non so. Forse solo la morte potrà essere una soluzione”.
I piemontesi conquistarono e presidiarono militarmente ogni angolo del territorio marchigiano. Dopo l’estate del 1861 “poche battaglie, insignificanti e vane scaramucce, sparse, senza costrutto, fatte da bande ormai fuori controllo. Morti inutili, da cui mi sono sempre dissociato e che ho condannato, senza la motivazione che animava la nostra resistenza all’oppressore, l’idea della difesa della Chiesa, dello Stato, della religione e del Papa”. “Molti dei miei combattenti sono stati presi e fucilati nei rastrellamenti dei piemontesi, altri si sono arresi e sono al Forte, altri ancora sono diventati delinquenti comuni, niente a che fare con la causa, solo violenze, furti e ruberie”.
Alla fine, tradito da qualcuno a lui vicino, il 23 novembre 1863 i carabinieri lo arrestarono mentre si accingeva ad andare ad Ancona per prendere un piroscafo e scappare in Egitto.
Il 16 luglio 1864 ad Ascoli Piccioni fu condannato a 16 anni (poi diventati 17). A nulla valse la difesa impostata sul fatto che lui era un militare. “La mia è stata una guerra. Per convenienza e perché la mia sorte era già decisa, non hanno preso in considerazione la mia condizione, considerandomi un mascalzone e ladro (…). 17 anni, alla mia età, ne avevo 66, significa farmi morire ai ferri, in carcere e lo sapevano che era una condanna a morte e mi faranno morire, come morirò, al Forte”.
Il “brigante” Giovanni Piccioni morì il 20 marzo 1868 (era nato il 17 maggio 1798) a 70 anni. Il suo corpo fu gettato nella fossa comune del Forte Malatesta, il carcere di Ascoli Piceno.
Paolo Zaghini
(nell’immagine in apertura: Giovanni Piccioni e in primo piano i figli Gregorio, Leopoldo e Giovanbattista)