Home___primopianoMa il poeta vero non è mai un ingenuo, nemmeno quando scrive in dialetto

L'unico autentico in Romagna? Olindo Guerrini alias Lorenzo Stecchetti, Argia Sbolenfi e molto altro


Ma il poeta vero non è mai un ingenuo, nemmeno quando scrive in dialetto


1 Luglio 2023 / Enzo Pirroni

Ritorniamo a parlare di dialetto e di poesia dialettale. Holderlin, aveva detto che il linguaggio era il più pericoloso dei beni che fossero stati dati all’uomo. Si potrebbe aggiungere che, maneggiare codesto “dono” per un “poeta”, è mille volte più pericoloso che per gli uomini comuni.

Dissipando tutta la triste cortina di estetismi, di romanticismi, di irrazionalismi, che per troppo tempo ha obnubilato la nostra cultura letteraria, ormai ognuno di noi sa che il poeta non è un bambino, non è il fanciullino di cui tanto parlava Pascoli. La poesia non è mai ricreativa.

L’attività del poeta non è di per se spassosa, né può essere divertente. La poesia è, per usare le parole di Cesare Brandi: “la naturalità che si decanta in realtà senza esistenza, ed è naturalità che urge, preme, deve essere espressa, fissata per sempre. La realtà a cui aspira non può compendiarsi nella verità logica, ma esige di concretarsi in realtà, presente, astante nella coscienza, e questa realtà non potrà essere allora che intuitiva e non potrà che essere data dall’immagine. Ma l’immagine della poesia è immagine complessa“. L’artista, qualunque artista, deve conoscere alla perfezione i mezzi che adopra: per un poeta le parole, per un musicista i suoni, per un pittore i colori.

Si può pensare seriamente che l’artista ideale sia l’artista ingenuo, l’artista ignorante? Il parlare in dialetto, ha rappresentato per secoli un modello significativo che bene si adattava alla trama dei rapporti della vita quotidiana di uomini che, vivendo nella stessa terra, appartenendo alla stessa comunità, barattavano tra loro, la più elementare socialità, l’immediatezza  della vita spicciola. Il dialetto, in virtù di tale funzione ha sempre e comunque privilegiato la parola detta, la “terminologia dell’io attuale” e mai il parlare in dialetto si è indirizzato verso la prosa o la poesia. Con un uso così contingente, con un raggio d’azione talmente angusto, alla portata di una umanità elementare, non desta sorpresa che il dialetto, nel quale, pur tuttavia, si esalta l’immediatezza espressiva, l’icasticità rappresentativa, la parodistica verve popolaresca, si riveli assai meno duttile della lingua e si avvicini molto di più al gesto che alla parola.

Furono i romantici, sfrontatamente invaghiti di luoghi comuni, tra cui il sentimentalismo per tutto ciò che sapesse di naturale, di genuino, morbosamente attratti da ogni cosa che emanasse afrori animaleschi, ad imbastire una poetica idillico-sentimentale, che guardava con lacrimosa nostalgia le “età primitive”, i paradisi perduti della fanciullezza, e vedeva nei dialetti e nella letteratura dialettale, l’emanazione più autentica e più poetica della vita. 

Nel secondo dopoguerra concorse il grande equivoco dell’arte neo-realistica a rinfocolare l’idea di una poesia che nasce dal popolo e che è fatta dal popolo. Né deve trarre in inganno il fatto che il 24 aprile 1943, Gianfranco Contini, sul Corriere del Ticino, per mezzo di un articolo intitolato “Al limite della poesia dialettale” recensisse favorevolmente la raccolta di versi friulani: “Poesie a Casarsa”, composta da un poco più che ventenne Pier Paolo Pasolini. Contini, faceva notare che il caso-limite Pasolini era quello di un dialettale senza dialetto. Come avrebbe scritto acutamente Tullio De Mauro, in “Varianti ed altra linguistica”, nel 1970: “Il dialetto per Pasolini, è qualcosa di altro biograficamente“.

Pasolini non parlava il dialetto friulano, poetava in italiano traducendo poi il tutto aiutandosi col dizionario friulano del Pirona. Nel dialetto Pasolini, ricercava la primitività di un linguaggio originario, contro le parole consunte dall’uso.

La scelta del dialetto, già allora, fu funzionale alla visione del mondo dello scrittore, quella visione entro la quale si coniugavano la ribellione e il rimpianto per una tipologia antropologica scomparsa, l’omosessualità e il cristianesimo. Pier Paolo Pasolini si accostò alla poesia dialettale con lo stesso spirito col quale viveva la sua vita notturna tra i ragazzi di vita. Il dialetto come le frequentazioni equivoche, la sua ostentata diversità, divenne soprattutto uno “strumento ermeneutico” per capire gli italiani e per “stupire” quella omologata, tanto odiata, piccola borghesia alla quale egli indissolubilmente apparteneva.

Un altro aspetto che i romantici (e coloro che seguirono le loro ipotesi) non tennero in dovuta considerazione è che il dialetto è una formazione collaterale alla lingua come il folclore è una formazione collaterale all’arte. Il dialetto, in tutti i casi si serve di una parola dialogata, il dialetto è “detto”, non scritto. Non riuscirà mai a staccarsi dalla viva voce. Il parlare in dialetto esige un’intonazione, una particolare pronuncia. La parola in dialetto non vive in virtù del proprio significato glottologico. Nel momento in cui la si scrive si trova sfasata, non assolve più alla funzione sua propria. Scritta, la parola dialettale è storpiata. Del resto la poesia dialettale abbisogna del dicitore.

La poesia dialettale “sia o no in discorso diretto, è sempre ad alta voce e non può essere giammai staccata dall’occasione viva, che la detta e dalle labbra che la pronunziano“. Per la sua intrinseca loquacità tutta la rimeria vernacolare ha bisogno, proprio per mantenere vivo l’interesse, dell'”uscita”, della battuta finale, dello spirito, del frizzo, della stoccata, della trovata ironica e geniale. Senza codeste caratteristiche, priva di tali qualifiche, la poesia dialettale è inesistente poiché perde il motore stesso dal quale sorge. Per tutti questi aspetti, pur con le debite sfumature, il dialetto può soltanto esistenzializzare la poesia. Servendosi di modi comici, di lazzi, di ironie, di sarcasmi la poesia dialettale riporta ogni cosa al giusto posto.

Per ovvi motivi non si può fare a meno di riandare all’unico (per me) autentico poeta dialettale che la Romagna possa vantare: Olindo Guerrini. Olindo Guerrini, più noto con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti (ma ne utilizzò altri fra cui Argia Sbolenfi e Mercutio) nei suoi “Sonetti romagnoli” che incominciò a scrivere a partire dal 1875, impose la “maschera”, (che poi tanto maschera non era) de “rumagnol sbraghè”, amante delle allegre compagnie, gran crapulone, dedito a scherzi da levar la pelle, largo di battuta, un po’ anarcoide e animato da una sana vena di anticlericalismo, “che gli dettava bellissime invettive all’indirizzo dei preti e i governi del tempo”.

Facendo man bassa degli stereotipi popolareschi, Olindo Guerrini, poeta dialettale, “si incaricò di restituire il sapore di una terra  maschia e generosa, sanguigna e ricca di umori. Ma in realtà il Nostro è un artista smaliziato e il taglio popolaresco è una sublime finzione. I duecentocinquanta sonetti sono costruiti con una tecnica sopraffina, al punto che Contini (sempre lui, sempre lui) ha potuto affermare la sua netta supremazia rispetto a tutti gli altri poeti conterranei. Dalla sua penna sono nate figure indimenticabili, ricordi di burle feroci, di epiche bevute, di personaggi bizzarri, il tutto tratteggiato col gusto dell’ironico e del grottesco. I dialetti se ne stanno andando”.

Attualmente sono ridotti “nella maggior parte dei casi a semplici involucri fonetici di voci alloglotte“. Tuttavia i poeti dialettali, mai come in questo periodo proliferano. Non amo e non capisco quei poeti dialettali che vogliono fare dell’ermetismo, che vogliono essere patetici, che vogliono spiegare i massimi sistemi. Se mi reco in un’osteria non ordino certamente caviale accompagnato da Pommery del 78. Molto probabilmente non sarebbero in grado di servirmeli.

Enzo Pirroni