Io me le ricordo ancora, le prime elezioni europee. Era il periodo del mio esame di terza media, e credo che una delle tracce proposte – allora si chiamavano ancora temi – fosse proprio dedicata allo storico evento che fra il 7 e il 10 giugno avrebbe portato alle urne i nove paesi della Cee, la Comunità economica europea. A guardarla oggi sembra minuscola e tutta sbilanciata a Occidente: si fermava a metà Germania, mancavano non solo tutti i Paesi dell’ex blocco comunista, ma anche l’Austria, la Spagna e la Grecia, e l’unico paese scandinavo era la Danimarca.
Insomma, praticamente era il cast di Giochi senza frontiere, senza la Svizzera. Forse era proprio l’imprinting dell’adorata trasmissione estiva, in cui le squadre dei vari paesi si sfidavano in allegria fra tuffi e pagliacciate, a rendere elettrizzante anche quel primo voto europeo, al quale non potevo partecipare per motivi d’età. Ma al secondo appuntamento, il 17 giugno 1984, c’ero anch’io, finalmente maggiorenne, e non potevo immaginare un battesimo dell’urna più emozionante, per motivi opposti: erano le prime elezioni senza Enrico Berlinguer, morto la settimana prima durante un comizio, e ci fu il clamoroso (e inutile, all’atto pratico) sorpasso del Pci sulla Dc.
La tornata elettorale che si celebra oggi coinvolge ben ventisette paesi, il triplo che nel 1979. Non è cresciuta solo la famiglia europea, ma anche la mia: mi recherò alla nostra sezione all’interno delle scuole Panzini-Borgese insieme a tre figli che compiranno insieme a me il sacro dovere e, da nativi europei, proprio non capiscono come si possano preferire le piccole patrie e i particolarismi egoistici a un’unione che permette loro di circolare liberamente da Helsinki a Madrid, da Dublino a Bucarest, senza tirare fuori un passaporto o cambiare moneta. L’antieuropeismo è un acciacco che colpisce noi vecchi, come l’artrosi e le macchie dell’età. Ma fortuna la fase acuta sembra superata, anche se ci sono voluti il disastro della Brexit e il Covid per far abbassare la cresta e i toni ai fan del «meglio da soli». Alle Europee 2024 il partito Italexit per l’Italia, abbandonato dal suo fondatore, Gianluigi Paragone, si presenta solo nella circoscrizione meridionale e ha il simbolo in condominio con il Partito Animalista – e questo dice tutto.
Ma a giudicare da quel che si è visto in campagna elettorale, i partiti maggiori, quelli che a parole vedono il futuro dell’Italia solo all’interno dell’Ue, non sembrano nutrire per le istituzioni europee tanto rispetto e attaccamento, visto che per tutti il voto di oggi è soprattutto uno specchio delle loro brame cui chiedono chi è il più bello del reame. L’elettore che fra ieri e oggi si è recato al seggio poteva essere colto dal dubbio se stava votando per rinnovare un parlamento o se partecipava a un megasondaggio. Ma se al seggio c’è andato (o ci andrà entro le 23 di stasera), vincendo l’indolenza, la disaffezione e anche un certo risentimento per una caccia al consenso mai così volgare e spregiudicata, significa che all’Europa ci crede ancora. Che stanotte che la forza di Enrico Mentana sia con lui (e con tutti noi).
Lia Celi