Ho sempre avuto un debole per la musica per banda, e quando per strada sento un parapaponzi-ponzi-pà le orecchie mi si drizzano e gli occhi cercano in lontananza uno scintillare di ottoni. Mi è successo anche giovedì scorso, quando da via Gambalunga ho intercettato la Marcia militare di Schubert eseguita in piazza Cavour. Niente ottoni scintillanti, era una registrazione, ma accompagnava una cerimonia solenne davanti al teatro Galli, con una fila di uomini e donne in divisa: agenti della Polizia penitenziaria, di cui si celebrava il 207esimo anniversario.
Confesso di aver provato lì per lì un piccolo brivido. Le guardie carcerarie non godono di particolare favore nell’immaginario collettivo, se non quando adottano il corrispettivo francese Geolier e arrivano secondi (anzi, secondini) a Sanremo. Eppure fanno un lavoro tanto duro quanto necessario. La vita di chi lavora negli istituti di pena – e soprattutto in quelli italiani – non è molto meno difficile di quella dei reclusi, e se è dubbio che la detenzione così come viene somministrata nella maggior parte dei penitenziari italiani, afflitti da sovraffollamento, carenza di servizi, inadeguatezza o assenza di efficaci percorsi di recupero, serva a qualcos’altro che a inasprire il detenuto e a renderlo ancora più criminale di quando è entrato, quando non a spingerlo al suicidio (68 casi solo l’anno scorso), è praticamente sicuro che anche le persone che prestano servizio in un carcere pagano tutte le magagne del sistema carcerario in termini di stress, salari bassi, fatica e solitudine. Poi ci sono episodi gravissimi di violenza e sopraffazione sui detenuti da parte di agenti aguzzini, come a Santa Maria Capua Vetere o a Modena, che infangano tutta la categoria e confermano i peggiori stereotipi da film di serie B.
Di serie B, piuttosto, sono i politici che a fini elettorali invocano detenzioni illimitate e chiavi da buttare via, e allungano la lista i reati punibili con il carcere, ma continuano a non fare nulla di concreto per rendere i nostri penitenziari degni della patria di Cesare Beccaria, ignorando deliberatamente che il vero indice della civiltà di un Paese è lo stato delle sue prigioni.
Ma già, è un tipo di intervento che non fa guadagnare voti, anzi. Per la pancia dell’elettorato sono soldi buttati per «viziare» i delinquenti, che andrebbero semplicemente isolati e dimenticati. A costo di isolare e dimenticare anche chi vive dentro le stesse mura per lavoro, come se occuparsi dei detenuti fosse una colpa e il carcere un lazzaretto che contamina.
Trovo giusto che per un giorno le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria siano sfilati nel salotto buono della città, davanti ai luoghi delle istituzioni e della socialità, sotto un sole per un giorno non a scacchi. Hanno ricordato alla cittadinanza la dignità di un compito ingrato e indispensabile, che ben pochi di noi avrebbero il coraggio di svolgere. Soprattutto certi ministri, che non riescono a esercitare la sorveglianza nemmeno sulla propria lingua.
Lia Celi