Ma siamo sicuri di ricordarci di Amarcord?
11 Dicembre 2023 / Paolo Zaghini
Davide Bagnaresi, Gianfranco Miro Gori
“Amarcord dalla A alla Z”
Edizioni Sabinae
Ritengo, senza paura di poter essere smentito, che non ci sia un riminese adulto che non abbia visto una o più volte “Amarcord” di Federico Fellini. Non oserei dire la stessa cosa per gli altri suoi film. “Amarcord” è Rimini, anche se “racconta la vita di un borgo italiano nella prima metà degli anni Trenta”, come scrivono gli Autori.
Nei 58 lemmi di questo dizionario felliniano dedicato al film a noi riminesi più caro, Davide Bagnaresi, ricercatore di Storia all’Università di Bologna, e Gianfranco Miro Gori, per anni direttore della cineteca riminese, ci raccontano il film, ricercando contemporaneamente ogni aggancio possibile alla storia e alla cultura di Rimini.
“Per quanto dialetto, luoghi, tradizioni e persino personaggi lascino pensare che la città rappresentata nel film sia quella nativa del regista, tale concetto è sempre stato smentito dal diretto interessato, che parlerà di una rappresentazione ideale della tipica città di provincia italiana”.
Scriverà Fellini: “Perché ho girato ‘Amarcord’? Per la stessa ragione per cui ho fatto gli altri. Immagina che sia una operazione di igiene della memoria: ‘Satyricon’ per liberarmi del Liceo e degli antichi romani; ‘Roma’ per escludere la capitale sfrontata dal bagaglio degli incubi; ‘I Clowns’ per liberarmi del circo e ora ‘Amarcord’ contro l’incubo della Romagna, della sensualità infantile, dei fascisti di allora, dell’educazione goffa di quegli anni”.
Una “memoria inventata” ricostruita esattamente come il Borgo nel quale si muovono i suoi abitanti. Quel Borgo è interamente ricostruito negli studi di Cinecittà: “edifici, chiese, fontane, statue, transatlantici, trincee di neve, la nebbia, l’albero su cui si arrampica lo zio matto … persino il mare è finto”. Non un fotogramma Fellini ha girato a Rimini, e questo provocò qualche permalosa critica da parte dei suoi concittadini. “Ma i motivi della scelta sono fin troppo comprensibili. Negli anni Settanta quella Rimini, piccolo borgo ingenuo che fu quarant’anni prima, da tempo non c’è più: spazzata via dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale che hanno cancellato gran parte dei luoghi della sua infanzia”.
Gli Autori ricordano alcuni dati riguardanti il film: il film fu iniziato a girare a gennaio e venne terminato a luglio 1973. 24 settimane di riprese, di cui 20 a Cinecittà. Una troupe composta da circa 90 elementi. Il costo del film, prodotto da Franco Cristaldi, fu attorno ai due miliardi e mezzo. Per la neve si spesero 9 milioni, mentre la ricostruzione totale della città negli studi romani costò 350 milioni. Il debutto nelle sale italiane avvenne il 13 dicembre 1973. La colonna sonora è di Nino Rota, la fotografia di Giuseppe Rotunno, la fotografia di Danilo Donati, la sceneggiatura di Tonino Guerra. Innumerevoli i premi italiani e stranieri, sino al suo quarto Oscar ad aprile 1974. Fellini non andò ad Hollywood a ritirare il premio. In un’intervista dichiarò: “E’ una questione di carattere. Mi sento un tantino goffo a salire su un palcoscenico per ritirare una statuetta, una coppa o altri oggetti significativi dell’altrui apprezzamento (…). La cerimonia mi mette sempre a disagio. Quando posso evitarla, la evito: anche a costo di apparire sgarbato, o peggio, ingrato”. Fellini era fatto così.
Nei 58 lemmi scorrono i protagonisti del film: da Titta alla Gradisca, da don Balosa alla Volpina, dallo zio matto alla suora nana, da la tabaccaia al Podestà (interpretato dall’unico riminese presente nel film Umberto Bartolani), da Scurèza di Corpolò a Calzinaz, dal nonno a il cieco di Cantarèl. E si ripercorrono i segni identificativi del film: i compagni di scuola, il fascismo, il Fulgor. Il Grand Hotel, l’harem, le Mille Miglia, il nevone, la nebbia, la scuola.
Verso il fascismo “l’atteggiamento di Fellini oscilla tra il distacco e lo sberleffo”. “In ‘Amarcord’ la storia con la S maiuscola ci viene mostrata attraverso i fascisti e il culto del duce (…). La scena principale, proprio il centro del film, il suo fulcro è quella del XXI aprile (celebrazione del natale di Roma) con: visita del federale, parata a passo di corsa, elencazione dei dati incontrovertibili dell’adesione al regime, saggio ginnico con esaltazione della giovinezza. Finchè da un grammofono nascosto sbucano, accolte dai fascisti a fucilate, le note dell’’Internazionale’”.
Il protagonista del film è Titta (l’attore è il veneto Bruno Zanin), un giovane di 15 anni “alla ricerca della propria identità e in cui l’innocenza lascia spazio alla ribellione e alla curiosità nei confronti del sesso”. Per disegnare Titta Fellini si è ispirato al suo inseparabile amico d’infanzia Luigi Benzi. “Tra i due nasce una profonda complicità durante gli otto anni del Ginnasio-liceo. Sono compagni di banco, di giochi e scherzi. La complicità proseguirà sino agli ultimi momenti di vita del regista”. Benzi dirà che il film “riproduce in modo esemplare la sua famiglia ma al tempo stesso rievoca esperienze capitate in realtà all’amico regista”.
Mi piace ricordare che la prima volta che vidi “Amarcord” fu in un cinema di Bari ad inizio 1974, dove ero con un gruppo di amici riminesi. Il cinema era gremito, ma gli unici che ridevano divertiti dalle battute dei personaggi eravamo noi e finì che la gente guardava noi e non capiva perché ci stessimo divertendo così tanto. Problema di linguaggio certamente (non oso pensare, visto che è stato doppiato in tutte le lingue del mondo, come siano queste traduzioni). Del resto il dialetto è la lingua della nostra comunità. “E lo era in particolare nel periodo a cavallo tra gli anni Venti e Trenta nel quale il film è ambientato”. “Tutti (o quasi) i personaggi sono definiti con un nomignolo, spesso vernacolare. Non pochi, tutta gente del popolo, pronunciano intere frasi in dialetto. Nell’impossibilità di elencarle tutte, ci limiteremo al nonno, personaggio centrale della cultura dialettale, e garante della sua conservazione e trasmissione. Da lui il dialetto sgorga naturale”.
Per Fellini il dialetto era “la lingua del mio paese”, è il dialetto che caratterizza la sua piccola patria.
“Mostrando la provincia della sua infanzia Federico Fellini riesce – diventando universale – a parlare al pubblico di tutto il mondo”.
Paolo Zaghini