HomeCronacaMacché youtuber o influencer, i nostri figli vogliono rivendere scarpe


Macché youtuber o influencer, i nostri figli vogliono rivendere scarpe


5 Gennaio 2020 / Lia Celi

I più pessimisti l’avevano previsto: sarebbe arrivato il momento in cui avremmo avuto nostalgia di quando i nostri figli volevano fare gli youtuber o gli influencer. Ma forse nemmeno loro avrebbero immaginato che sarebbe giunto così presto. E che il nuovo mestiere più ambito dai teenager desiderosi di fare soldi in fretta e senza troppa fatica sarebbe stato il rivenditore di scarpe, o meglio, il reseller.

Nessuna concessione all’ego o all’esibizionismo, nemmeno il pur minimo sforzo di creatività richiesto per ballonzolare o a descrivere un videogioco davanti a una webcam. Basta essere in rete nell’orario giusto (o, per chi abita in una grande città, stazionare davanti agli store di moda) e aggiudicarsi una scarpa da ginnastica in edizione limitata a un prezzo basso (si fa per dire: può essere cento o duecento euro), per poi rivenderla agli appassionati per una somma maggiorata.

Il rapporto fra spesa, ricavo e guadagno si impara già alle elementari e forse è una delle poche cose che tutti i ragazzi tengono in mente. E i genitori non sanno se compiacersi dello spirito commerciale dei loro figli o se mettersi le mani nei capelli perché anche questa speculazione costa e comporta dei rischi – che ricadono sul borsellino di mamma e papà.

Poi ci si può anche indignare perché un paio di pezzi di plastica variamente sagomati e colorati possano costare cifre folli e scatenare passioni insane. Siamo abituati a ridere della fashionista che fa pazzie per le Manolo Blahnik o le Louboutin con la suola rosso fuoco, che almeno sono calzature con una certa dignità artigianale e realizzate con materiali decenti. Ma i veri scocomerati sono quelli disposti a uccidere per un paio di scarpe da ginnastica, e sono molto più numerosi.

Vabbè, magari non uccidono, però rubano: i furti di sneaker dai centri commerciali o dai negozi di articoli sportivi sono all’ordine del giorno. Solo che siccome la sneaker-mania coinvolge soprattutto i maschi, e non solo quelli giovanissimi, li si prende meno in giro, anche perché la sneaker sembra meno frivola, vanta design ergonomici e aerodinamici e, almeno teoricamente, sarebbe destinata a a migliorare prestazioni atletiche che, nel 90 per cento dei casi, si esauriscono nello struscio in piazza il sabato pomeriggio.

In realtà i grandi marchi, come incantatori di serpenti, orientano le brame del pubblico a loro piacimento, suonando da virtuosi tutta la tastiera del marketing: stimolano la competizione, l’emulazione, la caccia ai modelli “battezzati” da testimonial prestigiosi o indossati da fashion blogger di grido. I due pezzi di plastica acquisiscono un valore aggiunto praticamente incalcolabile, e il fenomeno del reselling non fa che aumentarlo ulteriormente, in una vertigine di autoreferenzialità.

A chi è più anziano, o abbastanza attempato da aver frequentato i cineforum in gioventù, questa storia dei ragazzini che rivendono le scarpe ricorderà il caso di un celebre pioniere del reselling, immortalato da Roberto Rossellini nel secondo episodio di Paisà: lo scugnizzo che ruba gli stivali al soldato americano di colore, in una Napoli del 1945 in cui un paio di scarpe militari vale molto di più di un paio di Nike SB Dunk Low Diamond. Gli scugnizzi di oggi non rapinano i GI Joe, ma seguono le aste online sullo smartphone nei corridoi della scuola e ci investono la paghetta. E forse mettono ancora più tristezza dei bambini scalzi del dopoguerra.

Lia Celi