Di Maio, dal forno del PD niente pane per i tuoi denti
29 Aprile 2018 / Nando Piccari
“Ma è successo davvero, o me lo sono sognato?”. Credo che tutti noi siamo stati assaliti almeno una volta da questa surreale espressione di sbigottitimento, di fronte ad un avvenimento che non ci saremmo mai aspettati.
È ciò che sta capitando in queste ore alla stragrande maggioranza degli iscritti e degli elettori del Partito Democratico; i quali, essendo per lo più “portatori sani” non già del «rancore» di cui teme Emma Petitti, ma di quella necessaria dose di «orgoglio e responsabilità» da lei auspicata, non sanno spiegarsi come mai a Roma vi sia chi abbia già infilato mezzo piede nella tagliola grillina.
Nessuno pretendeva che la delegazione del PD, ricevuta dal Capo dello Stato la proposta di incontrare Fico, facesse riecheggiare l’altisonante «Non debemus, non possumus, non volumus» di Pio VII a Napoleone; né che Martina e C. si limitassero ad obiettare: “Scusi Presidente, ma in questi anni avrà senz’altro letto i giornali e guardato la TV. Perché mai farle dunque perdere altro tempo?”
Accettare di farsi ricevere da Fico, come richiesto da Mattarella che voleva tentarle tutte, è stato dunque doveroso. E in fondo anche divertente, poiché nessuno avrebbe mai immaginato che un giorno il Presidente della Camera fosse…Fico non solo di nome, ma anche per la “frivolezza borgatara” del suo esordio. Quella del “presidente pedestre” – valgano entrambi i significati del vocabolario – che si reca a Montecitorio e al Quirinale a piedi o in autobus, non avendo ancora colto la differenza fra “l’impersonalità istituzionale” del suo nuovo ruolo – gravida di obblighi, fra cui la sicurezza – e “l’allegro status” di ultras della curva sud al San Paolo di Napoli. Una ridicolaggine che, se ripetuta, costerà molto di più allo Stato per l’aumentata vigilanza, oltre a creare un insensato pericolo a quanti si trovino a passare accanto a Fico per strada, o a sedergli vicino in autobus.
Se lui non sa proprio rinunciare alla “demagogia populista” che tanto piace al grillino-tipo, ne scelga almeno delle modalità in grado di non procurare rischi a chicchessia. Anziché all’autista e all’auto blu, potrebbe per esempio rinunciare ai cuochi che sono al suo servizio, cucinandosi i pasti da solo: così l’Italia avrebbe finalmente un Presidente della Camera… con uso cucina.
Durante l’incontro con Fico, la rappresentanza del PD ha fatto bene a non trascendere nella greve ironia di chiedergli: “Scusi, ma il Di Maio in questione è per caso lo stesso autore di talune quotidiane carinerie verso il PD? Di cui le forniamo questo piccolissimo campione”: «Il Pd è un partito di miserabili che vogliono soltanto la poltrona»; è «il partito dei privilegi, del malaffare e della ruberie» che «si fa pagare da Mafia capitale»; è fatto di «ladri di democrazia (..) criminali politici, assassini politici della mia terra». Per questo «non ci fidiamo del PD», anzi «escludo categoricamente ogni alleanza col PD» e «l’unica cosa che possiamo fare è invitare i cittadini a liberare l’Italia dal PD».
Quello sì che sarebbe stato «rancore». Per rimanere invece sul piano di «orgoglio e responsabilità», sarebbe bastato dirgli: “Abbiamo appreso, con piacevole sorpresa, che “l’ultimo Di Maio” – se non è uno scherzo giornalistico – avrebbe affermato che «il nostro primo interlocutore è il PD con l’attuale segretario e le persone che in questi anni hanno lavorato bene». Dobbiamo però dirle che, avendoli letti e riletti con attenzione e confrontati più volte per essere sicuri, il nostro programma elettorale e quello dei 5 stelle continuano a sembrarci…come il giorno e la notte.
Anzi, qualcuno di noi, che quando va in bagno legge di tutto, sostiene che il programma di Salvini paia essere in molti punti la fotocopia di quello di Di Maio. Pertanto, egregio Presidente Fico, nel ringraziarla per il disturbo e per l’ottimo caffè, la salutiamo con istituzionale deferenza, augurandoci che in futuro le cose vadano meglio”.
Invece Martina è stato folgorato dalla “chiusura del forno leghista”, presunta ultima puntata della saga dei “due forni”, riesumata dalla “prima repubblica”. Vale a dire la constatazione di come per Di Maio sia del tutto indifferente trovare sulla “tavola apparecchiata del suo governo” del pane proveniente o dal forno leghista, o da quello del PD.
Qualche commentatore ignorante ha così paragonato i grillini ai democrististiani della prima repubblica, anziché al PSI. Ma qui non ho remore a dire quanto sia infamante, per i socialisti, subire a posteriori un tale accostamento. Vuoi perché il PSI era casomai tentato dal cosiddetto “doppio forno” (DC o PCI?) nelle realtà locali, non al governo del Paese; poi, perché paragonare Di Maio con Nenni, De Martino e lo stesso Craxi – checché se ne sia all’epoca pensato – sarebbe come voler trovare similitudini fra un manufatto di buon artigianato e una paccottiglia di oscura importazione.
Dopo aver presentato per settimane il governo Lega-M5S quale coerente conseguenza del voto del 4 marzo, di fronte al rifiuto di Salvini ad accettare la sua “conditio sine qua non”, Di Maio comunica “urbi et orbi” l’avvenuta chiusura del forno leghista e di voler aprire il forno di riserva, quello del PD. Ma Martina, che evidentemente non l’ha saputo, chiede a Fico: “Siamo proprio sicuri che il forno di Salvini sia stato davvero spento?” Risposta: “Certo. Non mi dirai che non ti fidi di Grillo, Di Maio e Casaleggio?”
Per questo fa perfino sorridere l’ingenuità di Martina e degli altri che l’hanno condivisa, partendo dalla quale ha preso avvio una delle più surreali rappresentazioni che la politica italiana abbia mai messo in scena. Dove gli attori esordiscono, o concludono, affermando che le «differenze fra PD e M5S sono abissali» e che «siamo due forze fra di loro alternative»; ma intanto la Direzione di giovedì prossimo sarà chiamata a decidere se, nonostante tutto ciò, non sia ugualmente il caso che il PD perda tempo (e la faccia) ad incontrare Di Maio.
E pure quel Toninelli che ripete ad ogni Tg il mantra televisivo «col PD non un accordo ma un contratto di governo»; senza che nessuno dei guru giudiziari dei 5 stelle – Procuratore Di Matteo in testa – gli spieghi che si tratta della stessa cosa, a meno che nel “contratto” non si dica che, viste le tante inconciliabili divergenze dei rispettivi programmi, le decisioni verranno prese lanciando la monetina o facendo “bim-bum-bam, pari o dispari?”.
Incombe poi il rischio del “masochistico referendum” di cui parla stamattina il Segretario f.f. e che temo possa ricevere anche l’assenso di Renzi, questa sera da Fazio: “Volete voi che il PD si suicidi con la corda fornitagli dai grillini?”.
Per quegli strani scherzi della memoria, la “storia del forno” ha fatto riaffiorare due flash dal mio passato. Il primo mi rimanda ad una “filastrocca con penitenza” che da bambini ci divertiva tanto. Non potendo all’epoca rimbecillirci con videogiochi e telefonini, dovevamo accontentarci di giochi di gruppo che, se praticati oggi, indurrebbero molti genitori “perennemente connessi” a ricorrere alla psichiatria infantile.
La cosa funzionava così: bambini e bambine si tenevano per mano formando un cerchio, da cui rimaneva fuori soltanto uno, che chiameremo putacaso Luigi. Dal cerchio veniva gridata una domanda: “Luigi è cotto il pane?” Risposta: “Sì, ma è un po’ bruciato”. Perentoria ingiunzione dal cerchio: “Dicci chi è stato!” Mettiamo che Luigi rispondesse: “È stato Matteo!” A quel punto il cerchio diventava un girotondo canterino, che in coro intonava più volte: “Matteo, sarai incatenato da cento catene. Patisci, patisci le pene!” Dopodiché Luigi dava uno schiaffetto a Matteo, il quale usciva dal cerchio e così i due invertivano i ruoli in vista del giro successivo.
Il secondo ricordo mi riporta invece a Sarsina, all’inizio degli anni ’90; e pur avendo ugulmente una forte analogia con l’odierno tormentone del forno, si riferisce alla scelta di un ristorante.
Da assessore alla Provincia di Forlì, che a quel tempo comprende pure Rimini, mi reco a Sarsina per visitare la suggestiva Arena Plautina in via di ultimazione. Mi ci ha caldamente invitato il Sindaco, il mitico e intramontabile Lorenzo Cappelli, eletto a quella carica dodici volte e rimastovi per ben 54 anni, divenendo nel contempo anche Senatore DC per tre legislature. Cappelli, che come quasi tutti i democristiani è un gran signore e per di più intende nell’occasione chiedermi il sostanzioso contributo della Provincia all’istituendo “Plautus Festival”, mi accoglie con tutti gli onori. «Ti porto a pranzo al Ristorante X Y, un posto che…vedrai come si mangia!», mi comunica mentre alza il telefono per chiedere alla segreteria di prenotare. Avuta l’inaspettata comunicazione che il locale prescelto è quel giorno chiuso per turno, pur senza nascondere un impercettibile cenno di fastidio, il Primo Cittadino non si perde d’anino: «Allora prenotate da W Z», replica al telefono; per poi aggiungere, rivolto a me «…tutto sommato è ancora meglio».
Passati alcuni minuti, entra in ufficio la segretaria, con aria costernata: «Sindaco, purtroppo il Ristorante W Z da oggi starà chiuso due settimane, per ristrutturazione».
Se gli fosse caduto un pezzo di soffitto in testa, Cappelli avrebbe sicuramente un’aria meno sofferta di quella che gli leggo in viso in quel momento. «Ci resta solo di andare dai comunisti», mi sussurra con un filo di voce. Solo qualche minuto dopo capisco di cosa si tratti: l’ultima opzione per non saltare il panzo è la trattoria annessa alla Casa del Popolo. Dove Cappelli entrerà di lì a poco per la prima volta in vita sua, suscitando la divertita ma cordiale sorpresa degli astanti e continuando ad indicarmi col dito mentre ripete a mo’ di giustificazione: «Però lui è un vostro compagno…».
Ecco, pur con tutta l’irriverenza del paragone fra un colosso della democrazia repubblicana e il figlioccio prediletto del “clan dei casaleggesi”, credo che Di Maio, più che lo sguardo dispiaciuto di Cappelli quella volta, avesse addirittura l’aria da cane bastonato allorché è stato costretto a dire ai suoi: “Ci tocca provare ad agganciare il PD” – aggiungendo però un suo “pensiero” di qualche tempo prima – «che è il male dell’Italia, da mandare via a calci».
Nando Piccari