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No cannabis light, propaganda low cost. E prosit


2 Giugno 2019 / Lia Celi

Ebbene sì, io l’ho provata, la cannabis.

La prima volta alle elementari: la corda da saltare che usavo da bambina, comprata in ferramenta, grossa e resistente come una gomena da barca (forse era quella la sua vera destinazione) era fatta di canapa doc. E in effetti faceva male, specie quando te la beccavi sulle gambe – erano tempi in cui le bambine non portavano leggings, ed erano rari pure i pantaloni: a scuola si andava sempre in gonna e calzettoni al ginocchio, anche d’inverno.

E faceva male ai contadini di Romagna, area di massima produzione e lavorazione della canapa in Italia (la Corderia di Viserba). Un lavoro malsano e disumano in tutte le sue fasi. E chi, nel pieno dell’estate, dopo la maleodorante macerazione  immerso fino alla cintola doveva farne immani fascine, aveva il privilegio di mangiare sei volte al giorno. E appena bastavano a sostentarsi, anche perché erano in prevalenza donne e bambini.

Nell’adolescenza ho provato pure l’altra, quella cattiva: corrotta da un paio di amiche scafate e trasgressive, ho tirato qualche boccata da una canna. Ma siccome l’unico effetto è stato una gran voglia di pastasciutta – e all’epoca non avevo certo bisogno di qualcosa che mi aumentasse un già gagliardo appetito – ho lasciato perdere subito.

Tutto quel che dà piacere o è immorale o fa ingrassare, dice il saggio, ma non c’era ragione di compiere un’azione immorale, cioè dare soldi a dei fuorilegge, per qualcosa che non mi dava alcun piacere e rischiava di farmi ingrassare. Meglio spendere quel denaro direttamente in roba ingrassante, oppure in altri oggetti dal più sicuro potere gratificante, come profumi, abiti e cosmetici.

Molti anni dopo ho scoperto che dalla canapa si possono ricavare profumi, abiti, cosmetici e perfino pastasciutta e olio per condirla, il tutto di ottima qualità e pure sanissimo visto che la pianta, particolare i semi, è un vero e proprio superfood che contiene un bendiddio di aminoacidi, vitamine e omega 3.

Tutto si può dire della canapa ma non che non sia un vegetale prodigioso, capace, nell’ordine, di vestirti, nutrirti, curarti la pelle, farti giocare nel cortile della scuola, impedire che la tua barca vada alla deriva, abbassare il tasso di colesterolo, combattere il dolore e, sì, darti una moderata ebbrezza, corrispondente a quella che dà l’alcol, e potenzialmente altrettanto pericolosa soprattutto per gli altri, se ti trovi alla guida di un veicolo o con un bisturi in mano.

Ma mettere fuorilegge la vendita di tutti i derivati della canapa, come ha sentenziato la corte di Cassazione, è un po’ come bandire l’aceto, l’uva da tavola, l’uvetta sultanina e la saba perché derivano dall’uva, dalla quale si producono altre sostanze che in forti dosi ti fanno andare via di testa.

Fra l’altro il corifeo degli anti-canapa è uno che si è fatto mille selfie con bicchieri di vino e boccali di birra in mano – e l’alcol, vale la pena di ripeterlo, fa molte più vittime della cannabis. E’ tutta questione di cultura (o meglio, di mancanza di) e di propaganda a basso costo.

Non si salverà dalla tossicodipendenza un solo giovane chiudendo i cannabis shop, anzi, si getteranno nella disperazione gestori e coltivatori che si credevano nella legalità. L’unico che vuole avere il monopolio della Maria, a quanto pare, è l’inquilino del Viminale, tanto che l’ha usata come psicotropo elettorale, rollando un rosario in pubblico.

Lia Celi