Noi scrittori già lo sospettavamo, ma vederlo scritto nero su bianco, con l’ufficiale inesorabilità dei numeri, in un autorevole studio di Nomisma, ci ha gettato nello sconforto: il 30 per cento dei libri pubblicati in Italia non vende una copia. Il 30 per cento. Nemmeno una copia.
Foreste abbattute inutilmente per produrre, con dispendio di energia ed emissione di anidride carbonica, centinaia di migliaia di pagine che nessuno sfoglierà e che dopo poco finiranno al macero per venire riciclate, si spera, in articoli cartacei più utili: involucri da pizza, piatti e bicchieri da party, rotoli di carta da cucina, eccetera. Quel libro su tre può essere una chiavica o un capolavoro misconosciuto, poco importa: la pila di volumi resterà intonsa sul bancone della libreria.
Ci sarà un altro quaranta per cento di titoli che riescono a vendere due o tre copie nei primi mesi dalla pubblicazione, spinti da qualche volenterosa segnalazione o dall’autopromozione dell’autore fra parenti, amici e conoscenti, tenue risultato rilevato dal primo rendiconto dell’editore; dal secondo rendiconto in poi la colonna delle copie vendute riporterà sempre uno sconsolante zero. Dopo un paio d’anni di invenduto o quasi, arriva la lettera fatale dalla casa editrice: caro signore, se vuole che continuiamo a tenere in magazzino il suo libro fallimentare bisogna pagare, o saremo costretti a mandare al macero il resto della tiratura, per far spazio ad opere più recenti di altri illusi come lei. Lo spettacolo delle illusioni letterarie perdute deve continuare.
Sono pochi gli scrittori che vendono davvero, e ancora meno quelli che riescono a campare dignitosamente con i guadagni dei loro libri. Miracolo propiziato non solo dal talento, ma anche dalle conoscenze, dall’abilità nelle pubbliche relazioni, dalla fortuna di incontrare un editor che si innamora di un certo stile e un editore che crede in un progetto, ci scommette e ci investe: tutta una serie di circostanze favorevoli che raramente si inanellano, o lo fanno una tantum, per un romanzo d’esordio, cui non seguono altri exploit.
Ma, diciamolo, non c’era bisogno della ricerca di Nomisma per capire che in Italia si scrive troppo e si legge pochissimo. Anzi, perfino chi scrive legge poco e male – e si capisce da come scrive. Eppure noi scrittori non ci perdiamo d’animo, ognuno di noi è fermamente convinto di avere qualcosa di importante da dire, e di doverlo affidare a un mazzetto di fogli stampati e rilegati in una copertina con un bel titolo. Il libro, manufatto così antico, negletto, apparentemente superato da dispositivi tecnologici più moderni e attraenti, è, alla fin fine, un piccolo monumento a noi stessi, qualcosa che lascerà una traccia sulla terra – un segno piccolo, insignificante, forse invisibile, ma più resistente di molte altre cose della nostra vita.
Per me è confortante sapere che un giorno, quando non ci sarò più, i miei figli, ogni volta che lo vorranno, potranno riavermi con loro aprendo un mio libro. «Non morirò del tutto,» come diceva il poeta Orazio, che vedeva nei suoi papiri «un monumento più duraturo del bronzo». È questa speranza di una piccola eternità, più che quella di un successo raro, improbabile e sempre aleatorio, a riempire le librerie di volumi che nessuno sente il bisogno di aprire, di sfogliare, di comprare.
Col rischio, magari, di perdersi un romanzo veramente, ma veramente bello. Per citarne uno a caso: il mio, Carolina dei delitti, appassionante noir storico appena pubblicato da Salani, disponibile in tutte le librerie, ideale da leggere sotto l’ombrellone ma anche sul divano. (Perdonate l’impudente auto-spot, ma la Convenzione di Ginevra degli Scrittori autorizza ogni autore a cercare con qualunque mezzo di evitare al proprio libro di finire in quel disgraziato 30 per cento di zero copie vendute. I cartoni della pizza e i rotoli di carta da cucina possono aspettare).
Lia Celi