La cronaca nera si sta affezionando al porto di Rimini.
Dopo il ritrovamento del cadavere nella valigia – esito non di un delitto, come si è scoperto, ma di uno straziante dramma familiare –, il naufragio della barca a vela partita da Ravenna, con la morte di quattro membri dell’equipaggio.
I naufragi in genere hanno un nome, quello dell’imbarcazione al centro della tragedia: il disastro del Titanic, dell’Andrea Doria, quello più recente (e con lutti anche riminesi) della Concordia. Quello di martedì scorso verrà ricordato come il naufragio del Dipiù, così si chiamava il quindici metri distrutto da un fatale mix di maltempo e di avarie.
Mi sono sempre chiesta come mai, a differenza di altri mezzi di trasporto, ogni nave e ogni barca del mondo, peschereccio o portaerei, hanno un nome proprio, ufficiale e registrato. Non un numero, come i treni, o un nome industriale, come Boeing, Concord o Ferrari, ma un vero e proprio nome, unico e irripetibile: se viene ereditato da un’altra imbarcazione va numerato come quello dei sovrani dei papi, «Carolina II» o «Genoveffa IV».
Pare che, come tutte le tradizioni marinaresche, anche questa si debba a un’antichissima superstizione dei naviganti: una barca è considerata una creatura viva, con un’anima e un destino affidati agli dèi del mare, che devono riconoscerle con un nome, trascritto nel Registro delle Profondità.
Per questo in marineria cambiare nome a una nave è forse l’atto più portajella in assoluto, più che salpare di venerdì, portare banane o conigli a bordo o usare per un’imbarcazione termini come Inaffondabile o Invincibile, che ai suscettibili dèi marini dànno tantissimo sui nervi.
Il cambio di identità va eseguito solo con debiti scongiuri che assicureranno Poseidone e associati che non si sta tentando di prenderli per il naso.
Non è uno scherzo. Esiste davvero una complicata procedura in più passaggi che prevede fra le altre cose il sacrificio agli spiriti del mare e dei venti di almeno due magnum di champagne, e guai a rubargliene un sorso. Ma l’importante è cancellare e distruggere totalmente e definitivamente la minima traccia del vecchio nome da ogni oggetto relativo alla nave, portachiavi compreso, pena incidenti fatali. Un altro scongiuro più pratico consiste nel far “tagliare” tre volte da un’altra imbarcazione amica la scia della barca ribattezzata. Poi lamentiamoci della burocrazia della Motorizzazione civile.
Esiste anche una spiegazione più razionalista della superstizione, e cioè che cambiare nome a un natante poteva essere un modo per mascherarlo agli occhi dei marinai, convincendoli a imbarcarsi su una nave malfamata.
Con il naufragio del Dipiù non c’entra un malaugurato cambio di nome. Niente come la furia degli elementi che martedì scorso ha sbattuto sugli scogli lo scafo veronese ci fa sentire piccoli e vulnerabili, in balia di potenze smisurate capaci di travolgerci come gusci di noce e giustifica la nascita di superstizioni e paurose credenze.
Quando il mare e il vento sono arrabbiati, non c’è molta differenza fra l’elegante barca a vela di un professionista veneto naufragata a Rimini e il rappezzato barcone carico di disperati che si ribalta nel Mediterraneo. Se non per il fatto che nel primo caso alle vittime, e perfino all’imbarcazione, possiamo dare un nome.
Lia Celi www.liaceli.it