HomeCulturaMa non è che il regista di “Riccione” lavorava per Rimini?


Ma non è che il regista di “Riccione” lavorava per Rimini?


11 Agosto 2019 / Lia Celi

La bruttezza clamorosa del film “Riccione” targato Durex si giustifica solo in un modo: il regista e gli sceneggiatori, per non parlare degli attori, lavoravano per il re di Prussia, nella fattispecie Rimini.

Veicola l’idea che la Perla Verde sia la mecca di uomini bruttarelli tatuati e allupati come nei film di Alvaro Vitali, incapaci di parlare un italiano decente e dall’umorismo stantio e sessista: ma come, non era la meta di un turismo raffinato e benestante?

O, al limite, per vacanzieri pop-fighetti che si riconoscono nell’iconico hit di TheGiornalisti (quello sì uno spottone come si deve)?

Poi, per carità, può darsi che Riccione abbia deciso di sbarazzarsi di questa immagine esclusiva per mostrarsi più “popolare” e accessibile, ma forse ha esagerato, e ora al confronto Rimini sembra evoluta e moderna come la California.

E pure la Durex, via: ci ha regalato e ci regala pubblicità ben più creative e divertenti, poteva pretendere qualcosa di più da questo filmetto, specie perché si tratta di veicolare l’uso del profilattico, barriera non solo contro gravidanze non volute, ma anche contro le malattie sessualmente trasmissibili, una vera emergenza, soprattutto fra i giovani.

E invece cosa vediamo? Un tizio che, per consolare una bambina, gonfia un preservativo e lo modella a mo’ di barboncino – o meglio, questo è ciò che il film vuol far credere, perché si vede benissimo che è fatto con un normalissimo palloncino e la scena risulta oltremodo goffa, considerato che sarebbe ambientata nel secondi millennio e non nel 1944 (chi ha visto la Notte di San Lorenzo dei fratelli Taviani ricorderà il momento in cui i soldati americani gonfiano i condom per divertire le bambine sfollate).

Fra l’altro, il tipo ha appena distrutto la bicicletta nuova della bambina, età apparente otto-nove anni, e solo qualcuno che non ha la minima idea di che razza di pile atomiche siano i cervelli delle ragazzine di quell’età può mettere su un siparietto così squallido.

La macchietta del gay sculettante e provolone bè, è irricevibile anche in tempi di oscurantismo pilloniano, oltre che un autogol da centrocampo per la fama inclusiva ed emancipata di Riccione – e si capisce lo sdegno quasi incredulo dell’Arcigay locale.

Ci vuole altro, quest’estate, per rubare la scena ad altri lidi più a nord, dove si rinnovano a quasi ottant’anni di distanza i fasti della Riccione di un dì, con il capopopolo che si tuffa tra le onde e la sera fa ballare le belle villeggianti.

La perla «verde», in senso leghista, ormai è il Papeete Beach di Milano Marittima, con l’inno nazionale che diventa ballo di gruppo da spiaggia e i bagnanti che fanno la fila per spalmare la crema solare sulla schiena del ministro dell’Interno. E i giornalisti (quelli veri, non la band) che fanno il coro a bocca chiusa.

Lia Celi