HomeCronacaNon si nega al figlio la difesa del padre, ma SanPa non è tutta qui


Non si nega al figlio la difesa del padre, ma SanPa non è tutta qui


9 Gennaio 2022 / Paolo Zaghini

Andrea Muccioli: “Fango e risate. Storia di San Patrignano (1975-1994)” – Piemme.

Pessimo titolo e brutto libro. Andrea Muccioli ha impiegato questa volta 540 pagine per scrivere quello che aveva già scritto in quattro pagine (unico altro testo suo conosciuto) introducendo il libro agiografico di Davide Giacalone “Disonora il giusto. Quello che hanno fatto a Vincenzo Muccioli” (Edizioni SEAM, 1996). Segnalandolo allora scrissi: “Non sappiamo se questo libro servirà a far capire San Patrignano. Abbiamo anzi il dubbio che servirà a rinfocolare polemiche e rancori. Un peccato, perché San Patrignano oggi non ha bisogno di questo”. E credo di poter ribadire oggi quel lontano giudizio.

Andrea Muccioli in tutte le pagine del libro non scrive mai che questo suo testo vuole essere una risposta al docufilm di Netflix, uscito un anno fa. Ma dice “ho scritto questo libro in sei mesi, tra marzo e agosto 2021”. Ci pensa poi il testo in bandella (redazionale?) a puntare il dito su ciò: “Andrea Muccioli avrebbe preferito il diritto all’oblio per suo padre Vincenzo, fondatore e anima carismatica della comunità di San Patrignano. Ma il successo della docufiction ‘SanPa’, le ricostruzioni arbitrarie e parziali, le insinuazioni e le tante ombre gettate sull’uomo lo hanno convinto a rompere gli indugi”.

Nessuno può negare ad un figlio la difesa del padre, ed è ciò che fa il figlio Andrea verso il padre Vincenzo. E lo fa raccontando, con gli occhi di un giovane sedicenne (è nato nel 1964), gli anni della nascita, della crescita e dell’affermazione della Comunità di San Patrignano, “una creatura giovane, inesperta, esuberante”. Il racconto finisce con la morte di Vincenzo il 19 settembre 1995, a 61 anni. Dalla nascita della Comunità nel 1979 alla scomparsa di Vincenzo nel 1995 sono state circa 7.000 le persone accolte.

Andrea ricostruisce l’ambito famigliare (la madre Maria Antonietta, il fratello Giacomo, gli zii materni e paterni), il gruppo di amici del padre che a partire dal 1976 diedero vita al “Cenacolo” (gruppo mistico con Vincenzo medium), l’arrivo nel dicembre 1978 nel casolare sulla collina di San Patrignano della prima ragazza tossicodipendente, la Betty.

“Così, dal nulla, senza alcuna competenza medica o psichiatrica, senza aver mai conosciuto tossici, e senza avere idea di come si debba trattare un tossicodipendente, hanno incominciato ad accogliere a casa nostra qualunque disperato si presentasse alla porta e chiedesse asilo”.

“Da Rimini, Forlì, Cesena e un po’ da tutti i paesi della Romagna sta iniziando a sciamare un flusso di disperati che vogliono capire in che cosa consista questa cura e se funzioni davvero”. “In tutta la Romagna, nei bar e nei mercati, come nelle parrocchie, in ogni ambiente pubblico e persino nelle scuole, la gente cominciava a chiacchierare e a farsi domande su cosa esattamente accadesse in quel cascinale sulla collina di San Patrignano”.

Praticamente da subito, dal 1979, incomincia un difficile rapporto con gli enti pubblici (ad iniziare dal Comune di Coriano su cui insiste la Comunità), sanitari, la curia, i partiti politici (il PCI in primo luogo), molti giornali. “Comincia così una specie di assedio, e si forma un solco, sempre più profondo, tra quella piccola comunità, in cui un manipolo di persone semplici, ma di buon animo e grande volontà, cerca di dedicarsi alle persone più stigmatizzate e vulnerabili di questa società, e la società stessa che giudica coloro che si trovano al suo interno, che siano i tossicodipendenti o le persone che se ne occupano”.

La Comunità passerà nel giro di pochi anni ad ospitare da poche decine di ragazzi sino ad oltre duemila nel 1995. La Comunità si struttura, costruisce spazi, amplia gli ettari (arriveranno ad essere 230) di terreno in proprietà su cui svolgere attività agricole, crea nuove attività (allevamento dei cani e dei cavalli, le stalle, la pellicceria, la tipografia: arriverà ad avere 50 settori in cui far impegnare i ragazzi). “Orari, regolamenti, turni. Ogni più piccolo aspetto della quotidianità di ciascuno è super organizzato. Se la si guarda da fuori, la comunità sembra un gigantesco formicaio in cui ogni individuo conosce esattamente i compiti a cui è chiamato e i tempi in cui svolgerli”. Ma “in una situazione così articolata e complessa, non è facile costruire e mantenere equilibri certi e stabili. Anzi, mi chiedo se sarà mai possibile, in una cittadina di 2.200 abitanti, il cui 95% è costituito da personalità border-line, il 72% da sieropositivi e malati di aids, e il 40-50%, a seconda degli anni, da persone condannate a pene oltre i tre anni di reclusione o sotto processo”.

E poi il racconto dei due processi: il primo, quello delle “catene” ai ragazzi che ebbe inizio col rinvio a giudizio di Vincenzo Muccioli e di altre 13 persone il 10 dicembre 1983. Il 16 febbraio 1985 Muccioli fu condannato in primo grado per sequestro di persona e maltrattamenti per avere incatenato alcuni giovani della comunità. Nel novembre 1987 la Corte d’Appello assolse l’imputato per gli stessi reati e la sentenza di assoluzione fu confermata dalla Cassazione il 29 marzo 1990. Il secondo, tenutosi nel 1994, ha portato a una condanna a otto mesi di carcere per favoreggiamento (con la sospensione condizionale della pena) e a un’assoluzione dall’accusa di omicidio colposo per l’assassinio, avvenuto in comunità, di Roberto Maranzano. La morte di Vincenzo interruppe gli ulteriori gradi del processo.

E su queste vicende processuali Andrea Muccioli si lascia andare a pesantissimi giudizi sui magistrati riminesi: da Andreucci (“piccolo Torquemada di provincia”) a Sapio (“totale ignoranza e incompetenza di quest’uomo in tema di tossicodipendenza”), da Righi a Battaglino.

Altro tema di rilievo trattato la battaglia all’AIDS che esplode nei primi anni ’80 anche dentro la Comunità: 600 ragazzi su 800 presenti sono positivi. Vincenzo Muccioli si impegna a fare tutto quello che può per aiutare i ragazzi malati, sino alla costruzione del nuovo Ospedale per i malati di HIV. Ma il prezzo pagato è alto: sono diverse decine i giovani ospiti che muoiono a causa di questa malattia (54 solo nel 1983).

Sul Muccioli politico: “Mio padre non è mai stato né di destra, né di sinistra, e non ha mai nutrito particolare passione per l’impegno politico”. Ma ad un certo punto pensò di poter sfruttare i politici e le loro ambizioni, soprattutto per ottenere una nuova legge nazionale sulla droga. Alla fine degli anni ’80 Vincenzo Muccioli sarà uno dei protagonisti della battaglia della nuova legge sulle tossicodipendenze, la legge Jervolino-Vassalli. “Di quella legge mio padre era l’alfiere principale”.

Nel libro ci sono molte omissioni, volute o meno non saprei, ma ci sono anche, più volte ripetuti, giudizi molto severi sulla presenza di Gianmarco e Letizia Moratti in Comunità e nel loro rapporto con il padre Vincenzo. Comprensibili solo alla luce degli avvenimenti successi poi, dopo la morte di Vincenzo, e l’estromissione di Andrea dalla Comunità nell’agosto 2011.

“Un libro che raccontasse, almeno una volta, una verità piena e completa sulla vita di mio padre, sulle più umane e intime caratteristiche della sua persona, sulle motivazioni profonde che lo hanno spinto a concepire, costruire e sviluppare lo straordinario progetto sociale a cui lui, insieme alla mia straordinaria mamma, hanno dato vita”. Questa la chiusura del volume di Andrea Muccioli. Valutazione comprensibile fatta da un figlio, difficilmente condivisibile se questa, come dichiarato, vuole essere la storia vera di San Patrignano delle origini.

Paolo Zaghini