Pasini e il Tempio Malatestiano di Rimini, sogno interrotto di Sigismondo
23 Dicembre 2019 / Paolo Zaghini
Pier Giorgio Pasini: “Tempus Loquendi Tempus Tacendi. Riflessioni sul Tempio Malatestiano 1969-2017” – Minerva.
“Di tutti i Malatesti – scrive Pier Giorgio Pasini – Sigismondo non è stato il migliore, né il più fortunato; ma è stato ed è il più famoso. In un certo senso è naturale che lo sia, perché ha speso la vita e investito una fortuna proprio per crearsi una fama presso i posteri, una fama che avrebbe voluto degna degli antichi imperatori romani, sull’esempio dei quali appunto ha costruito una grande reggia (Castel Sismondo) e uno splendido mausoleo (il Tempio), ha fatto fondere tantissime medaglie (nascoste ovunque, in modo che potessero consegnare ai posteri la sua immagine e il suo nome), ha commissionato poemi epici e opere letterarie in cui figura come ispiratore, mecenate, eroe e protagonista”.
Pasini, classe 1938, nel corso della sua lunga vita di studioso ha dedicato molte decine di libri e di saggi alla famiglia Malatesta, ai suoi protagonisti, ma soprattutto alle opere da essi realizzati a Rimini e nei territori da loro governati. Scrive: “E’ ormai mezzo secolo che giro intorno a Sigismondo (…). Per me tutto è incominciato nel 1968, quando il Comune di Rimini ha avviato le celebrazioni del V centenario della morte di Sigismondo” e poi quando “affidò a me l’organizzazione e la cura di una mostra su ‘Sigismondo e il suo tempo’ nell’estate 1970”. “Pur praticando ricerche e studi su altri e diversissimi argomenti, non ho più abbandonato i temi malatestiani”.
Nel bel libro che l’editore Roberto Mugavero ora ci propone, sono raccolti una decina di saggi di Pasini dispersi in riviste, cataloghi e atti di convegni che testimoniano la continuità delle sue ricerche su questo tema in quasi mezzo secolo.
Il Tempio Malatestiano è stato definito un vero e proprio “emblema” del Rinascimento, sia per aver avuto come protagonisti alcuni dei più grandi artisti italiani (Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Matteo de’ Pasti, Agostino di Duccio), sia per i suoi significati, ritenuti dai più di difficile decifrazione, misteriosi e pagani. Ma … E su questi ma Pasini ci conduce, saggio dopo saggio, dentro la storia di questo “mirabile Templum” basata su dati concreti, sfatando molte leggende, ricostruendo la vita di corte che circondava Sigismondo.
I lavori di ristrutturazione della Chiesa di San Francesco Sigismondo li iniziò nel 1447, “con un obiettivo molto limitato, la costruzione di due cappelle gentilizie”, ma ben presto questi si trasformarono “nella ricostruzione totale, ampliata, dell’edificio”. Due i registri: all’interno, quello della tradizione, dove operarono Matteo de’ Pasti e Agostino di Duccio; “all’esterno quello dell’avanguardia, a sancire un nuovo corso di cultura e di ambizioni, su progetto di Leon Battista Alberti”.
Alberti arrivò a Rimini nel 1449, chiamato da Sigismondo per una consulenza tecnica sui problemi nati nella ristrutturazione della Chiesa di San Francesco. “Una volta esaminato l’edificio, all’Alberti non deve essere stato difficile comprendere che il problema del cantiere riminese derivava oltre che dalle scadenti fondazioni e dalle deboli murature ‘a sacco’ delle pareti del vecchio edificio, dal fatto che la costruzione delle nuove troppo ampie cappelle aveva ulteriormente indebolito quelle pareti e disgiunto dal corpo di fabbrica la facciata, che perciò tendeva a inclinarsi verso l’esterno. Occorreva dunque contraffortare tutte le pareti, a cominciare da quella della facciata, e alleggerirle dal peso del tetto”. Alberti affascinò, con le sue proposte, Sigismondo, e da qui prese avvio la costruzione, ristrutturando completamente la vecchia Chiesa di San Francesco, del nuovo Tempio Malatestiano.
Ma come è noto il tempio non fu mai finito. “Alla fine del 1460 il signore riminese rimase privo di mezzi e di amici”.
“L’edificio potrebbe essere definito un sogno, un sogno interrotto di Sigismondo”. “In un certo senso il Tempio Malatestiano, per le sue incoerenze formali e per il suo raffinato intellettualismo, oltre che per la sua stessa incompiutezza, ‘materializza’ la crisi della civiltà umanistica, i suoi interni dissidi, la sua incapacità di uscire dal mondo chiuso delle corti”.
Sottolinea ancora Pasini che “quella era ormai diventata la chiesa del principe, del signore e degli eruditi della sua corte, non certo del popolino. Si trattava di un ‘tradimento’ che i francescani forse compresero in ritardo e a cui tardi – chiusa definitivamente la parentesi malatestiana – tentarono di porre rimedio riesumando madonne e santi della tradizione”.
A proposito della corte: “la corte riminese non fu una semplice aggregazione provvisoria e casuale di intellettuali e di artisti. Sigismondo ha ricercato e reclutato i migliori e li ha voluti al suo servizio stabilmente, o almeno per un lungo periodo”. Ma “al signore toccavano le scelte definitive su tutto”. “In Sigismondo la tensione all’imitazione degli antichi sembra scontrarsi continuamente con un gusto estetico sostanzialmente tradizionale e gotico, prevalentemente indirizzato verso l’ostentazione del lusso tipica delle corti settentrionali”.
“Negli atti di governo come nelle scelte artistiche è difficile scorgere in Sigismondo qualche consistente traccia di vere aperture verso il nuovo”. Egli ha creato una bella corte di intellettuali e di artisti. “Ma talmente chiusa e tanto calibrata sulla sua persona che al decadere della sua fortuna si è disciolta come neve al sole, senza suscitare né rimpianti, né vocazioni”.
Nel Tempio, Sigismondo, ispirato dall’Alberti, impose l’apposizione di almeno una dozzina di volte del motto “Tempus loquendi, tempus tacendi”, tratto dalla Bibbia. La troviamo incisa un po’ dappertutto. “E’ un invito a riflettere sul tempo, anzi sui tempi della vita, quella terrena e quella ultraterrena, sul tempo storico delle creature e quello illimitato, eterno del Creatore”.
E’ curioso che il primo articolo riportato nel volume, del 1969, racconti la storia dalla fine, ovvero del restauro del Tempio dopo i danni subiti nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Restauro definito “mirabile, grandioso, perfetto, degno d’ogni lode”. Ma, “senza togliere alcun merito a chi ebbe la volontà di promuovere e portare a termine quel lavoro eccezionale, è tuttavia doveroso esprimere molte riserve di carattere scientifico e metodologico su come è stato condotto. Ma prima sarà utile ricordare il clima di sospetto e di diffidenza con cui venne accolta dai riminesi la proposta di smontare il paramento esterno del Tempio per raddrizzarlo e riconnetterlo (…). Tutti, dal sindaco al vescovo, dalla giunta comunale alla curia, dalla soprintendenza ai monumenti alla rappresentanza più attiva della cultura riminese, cercarono di frapporre ostacoli all’esecuzione dei restauri. Le interruzioni di lavoro causate da esse furono moltissime, e solo la volontà della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti riuscì a fare in modo che tutto si concludesse felicemente”.
I lavori furono eseguiti in fretta, per risparmiare il più possibile denari, per scavalcare le difficoltà create dai riminesi e infine poter inaugurare l’edificio in occasione del V centenario della sua – fittizia o simbolica – fondazione: 1450-1950.
Di grande interesse infine la riproposizione di una saggio del 2001 dedicato a: “Il Tempio e la Città: vicende e ‘fortuna’ dei conventuali riminesi e della loro Chiesa”. Pasini ricostruisce la storia della Chiesa di San Francesco e della sua trasformazione nel Tempio Malatestiano, del suo diventare cattedrale della Città nel 1809.
Da questo saggio riprendo solo una annotazione: “Deve essere stato dalla metà del Cinquecento che i Francescani hanno incominciato ad avere veramente coscienza di possedere la chiesa più ‘bella’ della città, incomparabilmente migliore di tutte le altre, antiche e moderne, e anche della grande cattedrale (Santa Colomba), disadorna e addirittura goffa al confronto”. Ma ci vollero secoli perché essa diventasse la prima chiesa della Città.
Paolo Zaghini