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Perché il fascismo volle la riviera delle colonie


10 Giugno 2019 / Paolo Zaghini

“Colonie per l’infanzia nel ventennio fascista. Un progetto di pedagogia del regime”. A cura di Roberta Mira e Simona Salustri – Longo.

Un libro importante per comprendere il progetto di fascistizzazione della gioventù italiana messo in atto da Mussolini e dal Partito fascista nel corso del ventennio. Il volume, voluto e sostenuto dai tre Istituti storici della Resistenza della Romagna, attraverso sei saggi affronta il tema delle colonie per l’infanzia durante il periodo fascista: sono presi in esame i diversi organismi coinvolti nella progettazione e nel funzionamento delle colonie, i rapporti fra le strutture centrali e quelle periferiche del Partito nazionale fascista e dell’amministrazione statale e locale, gli aspetti architettonici degli edifici adibiti a colonia e il lavoro del personale – medici, direttrici, vigilatrici – impegnato a rafforzare la “razza italiana” e a trasmettere ai giovani ospiti l’ideologia fascista.

L’interesse dei tre Istituti storici romagnoli si comprende quando si osserva che nel ventennio, su un tratto di costa romagnola di 80 chilometri, sorsero oltre 240 colonie estive per bambini e adolescenti.

Valter Balducci (“Plasmare anime. L’architettura delle colonie per l’infanzia nel ventennio fascista”), architetto e docente universitario, in uno splendido intervento riesce a sintetizzare i punti nodali del tema in questione: “All’interno della lunga vicenda dell’assistenza all’infanzia rappresentata dalle colonie di vacanza, il periodo tra le due guerre mondiali costituisce un momento particolarmente significativo. E’ questo il periodo in cui si costruiscono parti importanti del sistema di assistenza sociale che perdurerà nel dopoguerra”.

E poi esaminerà diverse questioni legate a questi edifici: “le diversità della loro localizzazione nel territorio (al mare, in montagna, in campagna); della loro finalità d’accoglienza (permanente, temporanea, diurna); del pubblico al quale si rivolgono (bambini residenti in Italia o all’estero, orfani di guerra, bambini sani o suscettibili di contrarre malattie contagiose”.

Nel 1919 il Ministero dell’Interno censisce in Italia circa 200 tra ospizi marini e colonie di vacanza. La nascita nel 1925 dell’Opera nazionale maternità e infanzia (Omni) e dell’Opera nazionale Balilla nel 1926 creano le condizioni per una ampia espansione del numero delle colonie. Anche se “lo scarto tra la volontà politica di raggiungere un sempre maggiore numero di bambini e le persistenti difficoltà degli organi del partito nel finanziamento di nuove costruzioni lascia uno spazio d’azione che verrà colmato da imprenditori privati che propongono ai Fasci locali e Federazioni dei fasci provinciali l’affitto di edifici esistenti”.

Con la nascita della GIL (Gioventù italiana del Littorio) nel 1937 il Partito fascista raggiunge l’obiettivo del controllo sulla totalità delle colonie. Nel 1936 il Ministero dell’Interno rileva 3.821 edifici adibiti a colonia climatica, di cui 55 colonie permanenti, 60 temporanee e 3.165 diurne.

Sempre secondo Balducci “le colonie sono architetture che si stagliano nel paesaggio, spesso eccezionali per dimensione e per forma”.

“In questi frammenti disseminati nel territorio italiano, ma isolati dai loro contesti reali, si svolge l’esperimento di una convivenza al di fuori del nucleo familiare e di una trasmissione attraverso il gioco e la parata, le parole d’ordine e le uniformi, gli spazi e le immagini, di valori volti alla formazione della coscienza politica dei loro giovani ospiti”.

“In ogni colonia la vita quotidiana è regolata da un orario strettamente osservato e ritmato da una sequenza di momenti – sveglia, operazioni igieniche, pranzo, bagno nel mare o esercizio sportivo, visita medica e cena – che si alternano con i momenti di riflessione sui contenuti e i personaggi del regime fascista. L’organizzazione degli spazi della colonia è uno strumento di controllo dei comportamenti”.

Giancarlo Cerasoli, medico e pediatra (“Da ospizi a caserme. Medicina e cure nelle colonie fasciste per l’infanzia”), affronta il tema dei controlli medici all’interno delle colonie e della separazione tra bambini sani e quelli ammalati di tubercolosi. Il numero dei bambini che usufruirono di un turno in colonia (15 giorni) furono nel 1942 oltre 940.000, ma l’evolversi della guerra fece sì che “numerose colonie furono trasformate in ospedali militari dove vennero ricoverati i feriti al fronte”.

Sostiene Cerasoli che “l’intenso programma della vita in colonia e la precoce istruzione paramilitare, seppure proposte dietro la parvenza ‘salutistica e naturistica’ tanto sbandierate dal regime, vennero indicate da alcuni pediatri già dagli anni Trenta come pericolose per molti dei piccoli coloni per l’eccessivo carico delle attività fisiche (cerimonie, parate spettacolari e complicati esercizi ginnici) e mentali previste”.

Infine, citando la precisa denuncia dello storico Domenico Preti, condivide la valutazione che “le risorse ingenti impiegate per organizzare le colonie temporanee furono soldi sottratti ad una più efficace prevenzione antitubercolare”.

Di notevole interesse il saggio di Laura Orlandini (“Educare al fascismo in colonia”), ricercatrice presso l’Istituto storico di Ravenna, che pone al centro l’attenzione sul personale femminile nelle colonie. “Per quanto i protagonisti principali delle immagini e delle descrizioni giornalistiche fossero i medici, gli ispettori sanitari, i gerarchi in visita, l’opera di organizzazione ed espansione delle colonie climatiche estive risultò essere di fatto nelle mani dei Fasci femminili fin dall’inizio”.

“Alle dipendenze della direttrice erano poste le vigilatrici, il cui compito era quello di seguire la propria squadra di bambini in ogni momento della loro giornata”. Con un elemento di grande novità: “era imprescindibile per le vigilatrici e per tutto il personale avere il massimo rispetto degli ospiti non infliggendo punizioni, né corporali né simboliche”. “Se la colonia poteva rappresentare, ancor meglio della scuola, il volto del regime, nella sua doppia dimensione famigliare (quotidiana, femminile, affettuosa) e pubblica (paterna, rigorosa, patriottica), se nella vita regolata della comunità il bambino avrebbe dovuto trovare l’uniformità della visione fascista dello Stato, non era solo la retorica nazionale a trovare spazio di affermazione nella pratica quotidiana della colonia. Il momento di condivisione con il gruppo e di prima indipendenza dalla vita famigliare era considerato un importante passaggio di sviluppo nella personalità dell’individuo”.

Dunque “non solo per necessità logistiche, ma anche per evitare interferenze nel progetto totalitario, la presenza e il contatto con i parenti venivano fortemente controllati”.

Roberta Mira (“Pedagogia totalitaria, uomo nuovo e colonie di vacanza. Il fascismo e l’assistenza climatica infantile”), ricercatrice all’Università di Bologna, pone l’accento sulle finalità perseguite dal fascismo attraverso l’assistenza climatica: “rendere sempre più sana e robusta la stirpe italiana”.

“Parte del progetto dell’uomo nuovo fascista era anche un rafforzamento delle qualità fisiche e spirituali della razza italiana per creare un popolo di conquistatori e dominatori, ravvivando i fasti dell’antico impero romano. E poiché premessa indispensabile ad una politica di potenza era una popolazione numerosa e giovane, il regime avviò una campagna demografica sin dai suoi primi anni di governo”.

Simona Sallustri (“Centro e periferia. Lo stato e il partito nazionale fascista nella gestione delle colonie di vacanza”), docente all’Università di Bologna, impernia la sua ricerca sull’evoluzione del governo delle colonie.  “Alle soglie degli anni Trenta la frammentarietà nella gestione delle colonie, che ne intralciava lo sviluppo in senso fascista, rappresentava per i vertici del regime ancora una questione da risolvere. Ai segretari del Pnf Giovanni Giuriati e soprattutto Achille Starace spettò il compito di raddrizzare una organizzazione che doveva rispecchiare l’evoluzione storica del fascismo, riportando in un settore specifico che riuniva assistenza e indottrinamento la trasformazione del partito in organo dello Stato”.

Luca Rossi (“Poteri locali e colonie per l’infanzia ai tempi del Duce”), ricercatore dell’Istituto storico di Rimini, indaga sulle relazioni politico-istituzionali per la costruzione delle colonie lungo la costa adriatica e sugli intrecci in campo economico-imprenditoriale per la loro realizzazione. “La costruzione di questi centri ebbe un vantaggioso influsso sull’economia turistica e sullo sviluppo delle località balneari, agevolando la crescita delle nascenti stazioni balneari e nuovi interventi sul piano urbanistico locale. I comuni di Rimini e Riccione, dove già in passato l’espansione degli ospizi marini era stata più marcata, approvarono alcuni provvedimenti urbanistici tesi a dirimere i conflitti tra colonie e abitati turistici, destinando aree periferiche alla localizzazione di questi edifici”. Le colonie rappresentarono per l’economia locale un’occasione rilevante di lavoro sia durante la costruzione che nella fase di attività.

Paolo Zaghini