Poco da festeggiare? Eppure ci vuole un Otto marzo di gioia e ottimismo
3 Marzo 2024 / Lia Celi
Siamo a pochi giorni dall’Otto marzo, festa della donna, e come donna già mi viene la depressione, perché sembra che da festeggiare ci sia veramente poco. Dico ”sembra” perché non bisogna mai smettere di celebrare le conquiste che abbiamo raggiunto, vittorie che rendono l’ultimo secolo il più paritario della storia umana (sulla preistoria non abbiamo notizie certe, anche se pare che l’immagine del cavernicolo che trascina per i capelli la compagna sia un’invenzione moderna e che il patriarcato sia nato “solo” intorno al Mesolitico). I diritti civili e politici raggiunti dalle donne non vanno mai dati per scontati: la triste situazione di Paesi come l’Iran e l’Afghanistan ci dimostra che non bastano un paio di generazioni di donne in pantaloni e capo scoperto, libere di frequentare l’università e di esercitare professioni importanti, per scongiurare per sempre il rischio di rotolare verso regimi sessisti e oppressori che impongono veli, divieti e isolamento in casa.
C’è ancora domani, il fortunatissimo film di Paola Cortellesi (dall’8 all’11 marzo verrà riproposto al cinema Tiberio, dove le poche e i pochi che non l’hanno ancora visto possono recuperarlo) ci ha raccontato le difficoltà delle nostre nonne in un’Italia che aveva ritrovato la libertà ma non garantiva ancora una piena uguaglianza alle sue cittadine. A distanza di quasi ottant’anni dobbiamo constatare che le leggi si sono evolute più in fretta di molti, troppi cervelli, e l’approdo di una donna a palazzo Chigi, più che la conferma di un traguardo raggiunto dalle italiane, sembra l’unico segnale di segno contrario rispetto a una generale stasi, se non retromarcia. Lo dicono il numero costante dei femminicidi, la maglia nera in Europa in fatto di occupazione femminile, la sempre maggiore impraticabilità dell’interruzione di gravidanza, e anche provvedimenti come il ripristino della tampon tax o le limitazioni alla gratuità della pillola anticoncezionale. Ce lo ricorda la tenace tendenza dell’opinione pubblica, specie quella social, a scagliarsi con più accanimento e volgarità contro celebrità femminili. Ce lo prova l’emergere prepotente di paladini della «mascolinità oppressa» come il generale Vannacci o il sindaco dimissionario di Terni Stefano Bandecchi, che in qualunque altro posto, ma perfino nell’Italia di dieci-vent’anni fa, sarebbero stati considerati casi psichiatrici o, nel caso migliore, personaggi di Franco Bracardi, il comico arboriano che interpretava il fascistone Catenacci.
L’Otto marzo 2024 non si prospetta quindi allegro e battagliero come quelli femministi degli anni Settanta-Ottanta, e nemmeno sbruffone e frivolo come quelli di inizio millennio, con le uscite fra amiche, gli striptease maschili e le corbeilles di mimose troppo care e civettuole per essere davvero militanti. Prevarranno, probabilmente, i toni addolorati e risentiti, a scapito della speranza e della fiducia nell’avvenire, sentimenti di cui nessun movimento e nessuna rivoluzione possono fare a meno. E necessari soprattutto alle lotte delle donne, che sfidano ingiustizie e pregiudizi più che millenari, e non limitati a una classe o a una categoria, ma a un intero genere.
Venerdì prossimo quindi non lasciamo spazio solo alla giusta amarezza per ciò ancora non abbiamo conquistato. Diamo voce anche all’ottimismo della volontà, alla certezza che impegno, coraggio e solidarietà daranno risultati, se non per noi, per le nostre figlie. I diritti di cui godiamo oggi sono il frutto delle battaglie delle nostre madri. Se si fossero lasciate vincere dallo sconforto, forse oggi non ci sarebbe nemmeno più un Otto marzo.
Lia Celi