Quei 17 fascisti romagnoli trucidati a guerra finita
11 Novembre 2024 / Paolo Zaghini
Mattia Brighi, Alberto Gagliardo: “Anatomia di una strage. Cesena, 8 maggio 1945″
Biblioteca Clueb
Il lavoro che i due ricercatori storici, collaboratori dell’Istituto Storico della Resistenza di Forlì-Cesena e di quello di Rimini, ci consegnano, è una disamina attenta, pignola, documentata di ciò che avvenne la notte dell’8 maggio 1945 a Cesena: ovvero l’uccisione a colpi di mitra di diciassette ex fascisti reduci dal Nord ed incarcerati nella cella della Rocca Malatestiana. Con un preambolo: nel pomeriggio di quello stesso 8 maggio venne uccisa, alla presenza di una nutrita folla, una giovane donna accusata di essere stata una spia fascista, Iolanda Gridelli.
Cesena era stata “liberata” dalle forze tedesche il 20 ottobre 1944, Forlì l’11 novembre 1944. Dunque i terribili fatti raccontati da Brighi e da Gagliardo accaddero sei mesi dopo la Liberazione. Ma senza una contestualizzazione storica questi fatti possono (ed è avvenuto) essere travisati e falsati. “Per questo motivo – scrive nella Prefazione lo storico Francesco Filippi – gli autori ricostruiscono con attenzione il clima di terrore imperante nel cesenate durante l’occupazione nazista e fascista e il confronto sempre acceso tra occupanti e partigiani (Cesena era il luogo ‘più caldo’ della provincia per stessa ammissione delle autorità alleate): le violenze, i rastrellamenti e le punizioni collettive colpiscono il territorio anche a guerra ormai chiaramente perduta”.
La notte dell’8 maggio, alle 23,30 circa, “un numero imprecisato di sconosciuti si introdussero nella Rocca Malatestiana, al centro della città, per uccidere alcuni fascisti che vi erano trattenuti in stato di fermo”. I diciassette erano tutti fascisti repubblicani, reduci dal Nord, arrestati dalle forze di polizia o dai partigiani, “accusati dalla voce pubblica di aver collaborato attivamente con i tedeschi e di aver partecipato a vari rastrellamenti di partigiani della zona”. Erano tutti romagnoli e otto risultavano residenti a Cesena. Età media 29 anni (il più giovane 18 anni, il più vecchio 50 anni).
Dopo il racconto biografico degli uccisi, gli autori incominciano ad analizzare diversi aspetti della vicenda. Il ruolo della folla. “Se ad agire la violenza delle vendette furono le armi dei partigiani, ad armarle ci fu quasi sempre la rabbia popolare, il rancore di chi aveva subito torti e voleva chiudere il conto con la stessa moneta con cui era stato pagato dai fascisti. E proprio per questo suo presupposto corale e di massa, la giustizia partigiana spesso spettacolarizzò le azioni, le rese rito pubblico e collettivo”.
E lo sfondo storico in cui queste azioni terribili avvennero era il seguente: “Certamente l’ondata di violenza politica del dopoguerra nell’Italia settentrionale può venir interpretata non solo come resa dei conti di una guerra civile iniziata negli anni ’20, ma anche come il tentativo di alcuni segmenti del partito comunista di influire sui termini della lotta politica in Italia. Tuttavia va sottolineato con estrema chiarezza che essa non era inserita in alcun disegno strategico di natura rivoluzionaria, perché il PCI in Italia, da Jalta in poi, non doveva arrivare al potere, né tantomeno poteva fare la rivoluzione”.
Anche se, riprendendo dal diario di don Leo Bagnoli del 2 giugno 1945: “In genere i vecchi comunisti che hanno fatto del carcere in altri tempi sono più giusti e comprensivi. Ma i più giovani sono ferocemente portati alla vendetta ed hanno il mitra facile”.
Gli autori ribadiscono più volte nelle pagine del libro che “non si tratta qui di misconoscere il legittimo dolore delle famiglie delle vittime, piuttosto del rischio ch esso sia strumentalizzato a scopi ideologici e politici volti a rafforzare quel processo, in atto da anni, di denigrazione della Resistenza attraverso una sua ‘criminalizzazione’, dietro cui se ne cela uno, ben più ambizioso e grave, di corrosione dei valori democratici che nella lotta di Liberazione hanno avuto il loro fondamento”.
L’uccisione dei fascisti a Cesena, porta gli autori anche a precisare una serie di dati: la destra missina ha parlato per anni di 300.000 fascisti uccisi nel dopoguerra. “Si tratta in effetti di una cifra inventata priva di ogni fondamento”. Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno “la somma delle segnalazioni indica 8.197 soppressi perché politicamente compromessi, ai quali vanno aggiunti altri 1.187 individui che sono considerati prelevati e presumibilmente soppressi in quanto scomparsi”, per un totale di 9.384 caduti, che è di gran lunga inferiore a quella proposta nella vulgata neofascista. “
Oggi il dato su cui converge la storiografia più aggiornata è quello di 10.000 uccisioni, il 70-80% delle quali avvenne nei mesi di aprile-maggio 1945; ad esempio nel 1945 in Emilia-Romagna vennero denunciati 1.774 omicidi, nel 1946 essi furono 366”.
Elemento di tensione in questi primi anni del dopoguerra le voci su diverse migliaia di ex militari fascisti repubblichini inquadrati in organizzazioni armate (brigate nere, X MAS, Guardia Nazionale Repubblicana (conteggiati in 16.000 unità) in possesso di armi e di esplosivi che non erano stati requisiti dopo la fine delle ostilità, a cui si assommavano i quarantamila fascisti detenuti nelle carceri.
Inoltre la violenza che il dopoguerra ereditava dalla fase storica precedente è ben evidente anche nei comportamenti delle truppe alleate di occupazione, e nelle relazioni conflittuali che sovente la popolazione stabiliva con esse, specie quelle polacche.
E ancora gli autori si soffermano sull’organizzazione della giustizia postbellica (i processi celebrati nella provincia di Forlì contro i fascisti furono 371, svoltisi tra il 13 giugno 1945 e il 4 ottobre 1947). Fu il Governo Bonomi il 27 luglio 1944 ad emanare la prima norma volta a perseguire i reati fascisti, ribadita ed ampliata il 22 aprile 1945. L’amnistia del Guardasigilli Togliatti il 22 giugno 1946 valse sia per i fascisti in galera che per i partigiani: il termine ultimo per entrambi per rientrare dentro questa amnistia “per i fatti da costoro commessi durante l’occupazione nazifascista e successivamente” era il 31 luglio 1945.
Tutti gli autori della strage sono rimasti fino ad oggi impuniti perché nonostante le indagini degli Alleati e dei Carabinieri, non si potè arrivare ad individuarli. Ma “nella corretta valutazione di quanto accade in quei giorni di maggio del 1945, non bisogna dimenticare che coloro che a Cesena si macchiarono di quel delitto in quella notte di quasi ottant’anni fa, venivano fuori da vent’anni di violenta dittatura, oltre quattro anni di guerra totale, l’ultimo dei quali virato in sanguinosa guerra fratricida sotto la brutale occupazione nazista. Non per questo li giustifichiamo, ma neppure si può antistoricamente pretendere da loro quella equanimità che neppure oggi, singoli ed istituzioni, riescono ad avere”.
Una brutta storia, dove il giusto e l’ingiusto, come gli autori del libro hanno tentato di spiegarci, hanno un confine labile. Come scrivono gli autori: quando finisce una guerra?
Paolo Zaghini