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Il libro di Gianfranco Miro Gori "Provinciali del mondo. Zavoli, Fellini e l’immaginario riminese"


Quei due grandi che non riuscivano a staccarsi dalla piccola città


9 Ottobre 2023 / Paolo Zaghini

Gianfranco Miro Gori
“Provinciali del mondo. Zavoli, Fellini e l’immaginario riminese”
AIEP Editore

Il volume, presentato il 21 settembre il giorno del compleanno di Sergio Zavoli al Cinema Fulgor, in occasione delle iniziative promosse dal Comune di Rimini per il centenario della nascita del giornalista, e a tre anni dalla sua scomparsa il 4 agosto 2020, assieme al filmato diretto dal regista Mauro Bartoli “Il sole tramonta alle spalle”, pubblica le interviste integrali realizzate per il film di Bartoli.

Raccontano di Zavoli e di Fellini Miro Gori, Pupi Avati e Gianfranco Angelucci. Inoltre viene pubblicata la lunga intervista che Gori fece a Zavoli, ampiamente usata poi nel film di Bartoli.

Sergio è stato giornalista, scrittore, regista, poeta. “Qualcuno che ha rivoluzionato il racconto televisivo”. Nel preambolo al volume Gori scrive: dalle conversazioni con Sergio ho tratto “l’impressione che intravedesse in me – assieme ad altri di queste terre naturalmente – una sorta di legame con la ‘piccola patria’ da cui un tempo se n’era partito”. Perchè era qui che aveva lasciato gli amici della prima gioventù: Gino Pagliarani, Guido Nozzoli, Renato Zangheri, che pure loro comunque gireranno il mondo per le scelte professionali che avrebbero compiuto. Fellini e Zavoli sono due provinciali che da Rimini si sono trasferiti a Roma. Ma Sergio amava tornare a Rimini, mentre per Fellini il ritorno è stato sempre molto più complicato. Zavoli a questo proposito risponde: “E’ vero. Ma anche lui ha collaborato a questa mitologia di Federico che non ama la sua città. E’ praticamente un falso, accreditato da queste dichiarazioni di Federico che aveva bisogno, ogni tanto, di dire qualcosa di singolare anche di se stesso”.

Risponde invece Angelucci su questo tema: “Zavoli non perde mai i contatti con Rimini, né con l’amministrazione cittadina, né con i suoi amici, né con la sua famiglia. Torna spesso a casa, si immerge volentieri nel clima e negli affetti del borgo ormai cresciuto. Federico invece avverte fin dai primi successi l’ostilità sorda nei suoi confronti che serpeggia nella cittadina; si sa che nessuno è profeta in patria soprattutto quando si eleva troppo al di sopra degli altri, ma la sua innata riservatezza veniva scambiata per alterigia”.

Incontrato Fellini per la redazione della sua tesi di laurea su di lui, Gianfranco Angelucci fu per diversi anni suo stretto collaboratore. L’intervista che rilascia a Gori disegna in maniera cruda le figure di Zavoli e di Fellini, con numerosi retroscena e giudizi tranchant. Ad esempio su Zavoli: “Tutti parlavano bene di lui, ma lui cercava una stima diversa, più alta, più nobile. Voleva essere preso a braccetto dai letterati, dai poeti che lui adorava, e possibilmente non in conseguenza del potere mondano, e quindi promozionale, che esercitava. Quel consenso incondizionato, sempre così arduo da conquistare nel campo delle lettere, dell’arte, gli mancava terribilmente, lo tormentava. Le lodi fioccavano, ma siccome era molto intelligente, ne avvertiva l’atteggiamento di circostanza, il surrettizio interesse”. Sul rapporto Zavoli-Fellini: “La confidenza fra loro si era rafforzata dopo la presidenza RAI e il grave incidente occorso a Zavoli a Chernobyl nel 1986. Sergio cercava in Federico, come tutti del resto, non soltanto un amico, ma un confidente, qualcuno che lo aiutasse anche a sciogliere le tante angosce che lo assediavano e che nel nostro mestiere sono frequenti e insidiose”. Ed ancora: “Quando dopo la morte di Fellini chiesi a Zavoli se pensasse al suo amico qualche volta, rispose: “Non ci penso mai, perché Federico è dentro di me. Non vivo un solo momento senza Federico. Per me è il lavoro, la moglie, il fratello, l’amante. Federico è tutto”.

“Sergio scriveva. Scriveva nella stessa maniera in cui parlava, ma esercitando un controllo centuplicato, essenziale per il suo bisogno di precisione, di scrupolosità, di minuziosità”. Ma “era più bravo come oratore, perché la sua caratteristica distintiva era la voce. Ho incontrato donne che mi hanno confermato di essersi infatuate di Sergio per la voce […]. Voce assolutamente vellutata, modulata, dotata di un timbro, cioè di una frequenza rarissima persino negli attori professionisti, capisce che è proprio quel dono che gli permetterà di farsi strada, non disgiunto ovviamente dalla sua eloquenza”.

Molto bello il racconto di Pupi Avati su come riuscì ad incontrare la prima volta Fellini a Roma: “Ero magro, giovane, con cappottone nero un po’ nazi, insomma non avevo un’immagine molto rassicurante. Lui non mi notò. Camminava da una parte del marciapiede verso Piazza del Popolo e io lo seguivo. A un certo punto penso si sia accorto di me: ha accelerato il passo e ho accelerato pure io. Arrivato di fronte a Canova, è salito su una Mercedes bianca ed è partito. Secondo giorno, stessa scena, ma trovandosi attorno la stessa persona, si è accorto di me. Terzo giorno, stessa scena, stesa dinamica. A quel punto ho capito che aveva paura, perché si era accorto che stavo seguendo esattamente lui. Probabilmente avrebbe chiamato i carabinieri. Era il periodo degli attentati. Così ho deciso di attraversare la strada per affrontarlo. Con tutto il coraggio che avevo, attraverso. Lui vedendomi arrivare, si appiattisce contro il muro. Gli dico: ‘Maestro, sono Pupi Avati’. Per un attimo, ha una sensazione di smarrimento. Poi, grazie alle migliaia di lettere che gli avevo scritto, il mio nome gli suggerisce qualcosa. Gli è rifluito il sangue, riattivato la circolazione, si è illuminato: ‘Pupone!’. Mi ha abbracciato come due vecchi parenti. Come a dire: sono ancora vivo”. E secondo Pupi Avati “è Fellini il responsabile della mia conversione al cinema”.

Il libro è molto bello, pieno di ricordi affettuosi si, ma anche ricco di tante informazioni su questi due straordinari riminesi. Gori conclude il suo ricordo di Zavoli così: “Da Sergio, dalla sua lunga vita, possiamo imparare molte cose. Ma ne indicherei soprattutto due che vanno oltre il suo strepitoso talento di narratore: il rigore, l’onestà intellettuale ma soprattutto la compassione nel senso più alto della parola”.
Ciao Sergio. Grazie Miro.

Paolo Zaghini