Affrontare ore di viaggio su treni inaffidabili e strade poco sicure, nel fine settimana più freddo dell’anno, per venire a mettere una croce sulla scheda e mandare in Parlamento Tiziano Arlotti, o Giulia Sarti o Vallì Cipriani: una grande prova d’amore, per la democrazia e soprattutto per Rimini.
Parliamo dei tanti concittadini che studiano o lavorano in città lontane, e che in questi giorni di fine Burian sono tornati più o meno fortunosamente a casa in un clima da Centomila gavette di ghiaccio per compiere il sacro dovere elettorale. Gente che magari abita fuori Rimini da anni ma ancora non si è decisa a fare il cambio di residenza, complicandosi la vita non solo in occasione delle elezioni, ma anche di tanti adempimenti burocratici, sorda alle giustificate lamentele di un partner non riminese – “perché non fai il cambio? Quand’è che lo fai?”.
E loro niente, tergiversano, rimandano, restii a troncare un cordone ombelicale squisitamente burocratico che apparentemente comporta nella pratica più svantaggi che vantaggi. Ma non si vive di sola pratica. E sentirsi riminese non solo per nascita, ma anche come cittadinanza, è un bonus psicologico cui è difficile rinunciare.
Negli ultimi anni abbiamo imparato per necessità a staccarci dalla nostra affabile e confortevole madrepatria per spirito d’avventura, per cercare fortuna o per vendere meglio talenti che sotto il sole di Rimini nascono copiosi ma che, come certi frutti esotici, vengono apprezzati e valorizzati più in terra straniera che nella loro terra d’origine, dove gli indigeni continuano a domandarsi come facciano i forestieri ad andare pazzi per roba che loro usano come cibo per gli animali.
Eppure spesso nemmeno una fortunata integrazione, il successo professionale o l’amore bastano a convincere l’oriundo riminese a naturalizzarsi in un’altra città. Una nuova residenza, una nuova denominazione geografica, è come un vestito che non gli sta bene e offusca la sua identità, col rischio che famiglia e amici d’infanzia non lo trattino più come prima, che il suo bagnino storico lo guardi male e la piadinara gli dia il cassone bruciacchiato.
Nella città dell’ospitalità non vogliamo sentirci ospiti, rinunciando al privilegio regalatoci dal fato che ci ha fatto nascere fra i padroni di casa. La riminesità val bene qualche viaggio in più, ma chi lunedì risulterà eletto nel nostro collegio metta da parte la nostalgia e per cinque anni se ne stia il più possibile a Roma a fare il suo dovere in Parlamento: non vogliamo che i nostri deputati brillino per assenteismo, anche se li capiremmo.
Lia Celi www.liaceli.it