Credeteci o no, ma testo e musica pare risalgano addirittura al XVI secolo. E in rete troverete il brano anche in forma di mottetto a quattro voci. E non so cosa darei per vedere la faccia del soprano, del contralto, del tenore e del basso mentre, con lo spartito in mano, nella migliore tradizione dei complessi vocali di musica antica, intonano a pieni polmoni i fatidici versi «Dottore, dottore, dottore del buco del cul, vaffancul vaffancul».
Sì, perché di questo stiamo parlando, del coro goliardico che imperversa in occasione delle lauree a Rimini e in tutte le città universitarie del centro-nord – le segnalazioni più “meridionali” vengono dall’Umbria, mentre pare che da Roma in giù lo sboccato «dottore» sia praticamente sconosciuto.
Riscoperto negli ultimi decenni, e francamente abusato, comincia a suscitare insofferenza non solo fra passanti e residenti nei pressi delle facoltà, ma fra gli stessi laureandi, molti dei quali cominciano a proibire ufficialmente e tassativamente agli amici di celebrarli in quel modo, anche se non arrivano a minacciare le «cinque frustate sul volto» che in alcune città venivano comminate ai goliardi del buon tempo antico, se disturbavano la quiete pubblica con il peana pecoreccio.
A dire il vero, «dottore del buco del cul» non è necessariamente un insulto: se uno è laureato in Medicina con una tesi in proctologia, e magari intende pure specializzarsi nelle delicate patologie dell’ano (uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo), si tratta di una constatazione, di un vero e proprio titolo da mettere sul biglietto da visita o sulla targa dello studio, a beneficio dei pazienti meno colti, tanto oggi il turpiloquio è praticamente sdoganato, per non parlare del «vaffa», che grazie a Beppe Grillo è entrato da almeno un decennio nel vocabolario politico.
Del resto gli antropologi ipotizzano che la funzione originaria del «dottore del buco del cul» fosse analoga a quelli dei frizzi sconci che i legionari romani indirizzavano al loro generale durante il trionfo: gli si ricordava di non montarsi la testa, tanto era della stessa pasta di tutti gli altri.
Ma se è così, che senso ha cantarlo oggi al laureato italiano, poveraccio, che sa benissimo quali difficoltà lo aspettano? Piuttosto, «dottore del buco del cul» va letto come un augurio, perché bisogna avere un gran b. di c. per trovare un lavoro, specie se si è dottore in qualche materia umanistica.
A Rimini poi la zona universitaria è così vicina a piazza Cavour che in certi giorni i «dottore del buco del cul» finiscono per diventare la colonna sonora dei matrimoni in Municipio. Tanto vale che anche amici e familiari dei neo-coniugi sostituiscano il «viva gli sposi» e la marcia nuziale di Mendelssohn con «sposini del buco del cul, vaffancul vaffancul». Il madrigale giusto per un’epoca in cui il matrimonio dà la stessa garanzia di futuro stabile della laurea, cioè zero.
Lia Celi www.liaceli.it