Credo sia naturale, per chi ha intersecato decenni della propria esistenza con quella del Partito Comunista, provare una particolare emozione ricordando Enrico Berlinguer nel centenario della nascita.
Ho ancora ben presente la sua prima partecipazione a Tribuna Elettorale, mi pare in vista delle elezioni del 1968. Una partecipazione sorprendente, poiché fino ad allora le poche occasioni televisive dell’epoca vedevano la presenza di dirigenti comunisti storici, di consolidata notorietà. Ma bastarono poche altre analoghe apparizioni a mettere in risalto “l’efficacia televisiva” di quel suo ragionare privo di appesantimenti retorici, facilmente comprensibile anche a chi non avesse una gran dimestichezza con la politica.
Nel gennaio del 1980, eletto nel frattempo Segretario del PCI riminese, sto uscendo da una riunione tenuta a Botteghe Oscure da Napolitano quando mi sento chiamare «Berlinguer ti vuole vedere». È Antonio Tatò, che di Berlinguer è stato lo storico segretario particolare.
Sul momento penso mi abbia scambiato per il segretario di una ben più importante Federazione: «Ma guarda che io sono il Segretario di Rimini». E lui: «Proprio per questo che ti deve parlare». Così lo seguo, emozionato e incuriosito.
Berlinguer mi comunica la decisione di partecipare al Conferenza Nazionale della FGCI in programma a Rimini dal 7 al 10 febbraio, che sancirà il passaggio da Massimo D’Alema a Marco Fumagalli.
«Naturalmente se a Rimini siete d’accordo», aggiunge con uno di quei suoi sorrisi ironici che un paio di volte avrei poi “piacevolmente subito” durante la sua permanenza riminese.
Per il primo dei quali gli fornì l’assist Andrea Basagni, l’allora gran capo della pagina riminese del Carlino, che mi telefonava sperando in qualche elemento utile alla cronaca di quell’evento davvero eccezionale. Berlinguer, che insieme al suo “seguito vigilante” era alloggiato all’Hotel Bellevue, se ne stava in un po’ raffreddato in camera, a preparare l’intervento che avrebbe poi svolto quella domenica. Nella stanza accanto facevo compagnia a Tatò, costretto a interromperlo ogni dieci minuti, per passargli una telefonata o entrare a comunicargli una qualche urgenza.
Io, da ansioso, ero colpito dalla pacata disponibilità di Berlinguer a ricevere quelle intrusioni, per cui chiacchierando con Basagni me ne uscii con «giuro che non vorrei essere al posto suo». Ma la perfida gigioneria di Andrea e del suo sodale Cardellini trasformò quella battuta, assolutamente di circostanza, in un perentorio virgolettato: «Giuro che non
vorrò mai diventare il Segretario Nazionale del PCI». Con divertita ironia di Berlinguer: «Ma ne sei sicuro, perché non ci ripensi?».
A provocargli un secondo sorriso nei miei confronti provvide Giorgio Napolitano, pure lui in quei giorni a Rimini. Eravamo nel mio ufficio e stavo “spatacando” fra il disordine sulla mia scrivania, alla ricerca non ricordo di che cosa, quando emerse a un cero punto dal marasma un opuscolo di astrologia, che costituiva un inserto allegato a qualche pubblicazione uscita a fine anno. Non l’avevo cestinato subito perché mi era servito per uno scherzoso messaggio di auguri alla mia amica-avversaria Manuela Fabbri, spirito guida dei Radicali riminesi. Poi era rimasto lì, ben presto sommerso da una montagna di altra carta.
Oltre all’inevitabile ironia di Napolitano. arrivò all’indomani, in macchina, quella di Berlinguer: «Ma è vero che prima di un’importante decisione politica consulti l’oroscopo? Mi dici come si fa?». Risata generale.
Ma non è finita: quando Berlinguer conclude il suo intervento ringraziando «questa forte e fantasiosa federazione comunista riminese», mi arriva un bigliettino di
Napolitano: «Vedi ad essere un po’ astrologi…?».
Dulcis in fundo, l’aneddoto più bello.
In quei giorni la Galleria dell’Immagine di Palazzo Gambaluga ospitava unamagnifica mostra di Tina Modotti, curata dal caro amico Gian Butturini. Arrivato Berlinguer, Gian mi scongiura di portarlo a vederla. Naturalmente ne parlo con Tatò, che però, visto quel certo suo suo malessere, dice sia meglio non affaticarlo con uscite prima di domenica.
Pur senza entrare nei dettagli, mi limito così a riferire a Butturini che non gli sarà possibile.
Finita la manifestazione al Palas, stiamo tornando in auto all’albergo, da dove la comitiva partirà subito dopo pranzo.
All’incrocio fra via Flaminia e via Tripoli il semaforo segna rosso, per cui si fa pausa. Berlinguer, che è seduto di fianco al sedile di destra, girando lo sguardo verso il marciapiede incrocia il tabellone con affisso il manifesto della mostra. «La mostra di Tina Modotti?», esclama. «L’avessi saputo prima…. Ma al pomeriggio non è aperta?». Io e Tatò ci scambiamo uno sguardo mortificato. «No, domenica pomeriggio la Galleria rimane chiusa», gli rispondo.
Arrivati in albergo prende però il sopravvento il senso di colpa. Telefono sia a Piero Meldini, il Direttore della Gambalunga, che a Butturini, chiedendo se sia possibile aprire di lì a un’ora la Galleria.
Cosa che naturalmente fanno ben volentieri, con grande gioia di Berlinguer, che nel salutare si scusa: «Se l’avessi saputo, sarei venuto prima, senza così creare il disagio di questa apertura fuori programma».
Gian non me l’ha perdonato per una settimana.
Avrebbe dovuto esserci una seconda venuta di Berlinguer a Rimini, alla Festa Nazionale de L’Unità al Mare tenutasi nell’estate 1984 a Miramare, ma invece arrivò il dramma di Padova.
Quella volta ero stato io a chiedergli di ricevermi e ad invitarlo. Cosa cui acconsentì, aggiungendo con un sorriso divertito: «Vorrà dire che così farò un bagno in Adriatico».
Più di ogni altra cosa, sono stati quella frase e quel sorriso a rendere incontenibile la commozione la sera che gli ho rivolto l’ultimo saluto, in quella Piazza Cavour gremita non solo di compagni.
Nando Piccari