HomeCronacaA Rimini serve un drink, ma non chiamatelo Malatesta


A Rimini serve un drink, ma non chiamatelo Malatesta


25 Giugno 2017 / Lia Celi

«E così per dimenticare ho bevuto uno spritz, ma poi mi è tornata la tristezza e così ne ho bevuto un altro, però non passava e allora…».

Se ricordo bene furono una decina gli spritz con cui tantissimi anni fa un allora giovane amico dei miei altrettanto giovani genitori cercò di affogare una delusione d’amore. Non c’era abituato (all’alcol; alle delusioni amorose non ci si abitua mai) e finì che i miei genitori andarono a recuperarlo al bar dove tentava di convincere i due baristi che vedeva a fargli l’undicesimo spritz.

Abitavo a Pordenone, Nord-est profondo, e lì lo spriz (senza la t, alla buona) era quasi la normalità, l’upgrade del solito bianchino, l’aperitivo che facevano anche nelle osterie al cliente che voleva mostrarsi appena un po’ più sofisticato o far capire che aveva studiato a Padova.

E ancora oggi che l’aperitivo nato al leggendario caffè Pedrocchi è dilagato ovunque con la sua t dal vago sentore di Mitteleuropa, per me è ancora legato al ricordo di quella sbronza catartica che, mi pare, ebbe un qualche risultato perché smaltito l’hangover il nostro amico si mise il cuore in pace.

Ogni volta che ne bevo uno (in genere all’Aperol; il Campari è troppo hard) mi chiedo: a) come ha fatto a scolarsene tanti uno dietro l’altro e b) cos’aspetta la nostra Riviera, e Rimini in particolare, a inventare un aperitivo o un cocktail che racconti e riassuma la nostra piccola café-society, la dolce vita fra Arco e Ponte?

Se qualcuno ci ha provato in passato, non ne è rimasta memoria, e sicuramente il risultato non ha avuto il successo mondiale di altre ricette come il veneziano Bellini o il fiorentino Negroni, sia giusto che sbagliato: semplici e popolarissime. Si potrebbe lanciare un contest fra i barman e le barwoman locali, in occasione del seicentesimo anniversario della nascita di Sigismondo Malatesta, per riprodurre in un bicchiere la riminesità.

Che già di per se stessa è un cocktail, anche per merito di quello spericolato barman del Quattrocento: Sigismondo mise nel suo shaker una parte di umanesimo, una di arte , due di pulsione di dominio e due di passione, mixò il tutto e lo servì alla stupefatta Italia di allora.

Ci vuole un drink non troppo alcolico (non è da noi) né dai troppi ingredienti, che accompagni e propizi le chiacchiere in piazza e gli incontri al tramonto e conquisti le papille dei forestieri in modo che ne esportino la fama.

Ah, e naturalmente ci vuole il nome giusto. Evitando «Malatesta», che potrebbe essere scambiato per un’allusione all’emicrania post-bevuta.

Lia Celi  www.liaceli.it