La millenaria parentela fra Rimini e Roma ci viene ricordata ogni giorno dai più iconici monumenti della città, il ponte di Tiberio e l’Arco d’Augusto, per non parlare della pianta del centro storico, costruito sui tracciati del decumano e del cardo. In questi giorni un altro dettaglio sottolinea l’affinità con l’Urbe: i cinghiali a spasso.
Una coppia di ungulati è stata avvistata di primo mattino nella zona sud, fra via Melucci e via Chiabrera, vicino alla fermata Toscanini della Metromare. I due animali si sono limitati a zampettare tranquillamente nel parcheggio della Sgr e dintorni, senza infastidire i residenti a passeggio con il cane o impegnati nella corsetta mattutina. Non siamo ancora a livelli romani, con intere famiglie di cinghiali che sfilano indisturbati sul ciglio della strada, svuotano i cassonetti, caricano i malcapitati nei parchi o provocano incidenti stradali. I due cinghiali riminesi si facevano i fatti loro, o forse erano venuti in avanscoperta sulla costa, perché sì, bella bella la campagna, ma le cose più interessanti succedono in città, dove oltretutto la dieta è più ricca, varia e praticamente inesauribile, grazie ai cassonetti sempre scassati e traboccanti. Gli incontri ravvicinati con i cinghiali potrebbero aumentare, poiché il picco dell’immigrazione urbana di questi suidi coincide con la tarda primavera. Siamo pronti ad averli come vicini di ombrellone?
Dicono gli studiosi che dietro la proliferazione dei cinghiali (non solo a Rimini e a Roma, a dire il vero: il problema è segnalato in almeno cento città italiane, e ancora prima aveva colpito metropoli europee come Berlino e Barcellona) c’è, manco a dirlo, una serie di cavolate commesse da noi umani. Siamo stati noi, prima dei cinghiali, ad ammassarci nelle città abbandonando montagne e colline, favorendo l’aumento dei boschi. Negli anni Cinquanta-Sessanta la popolazione cinghialesca era modestissima, poi sono arrivate le nuove regole sulla caccia e l’immissione non regolamentata di esemplari alloctoni. Oltretutto, la tecnica usuale di caccia al cinghiale ha come bersaglio gli animali più grandi e maturi, col risultato di ringiovanire i branchi e di abbassare l’età della riproduzione. Pare oltretutto che per vincolare gli animali al territorio e incoraggiarne l’aumento, in passato i cacciatori lasciassero nei boschi alimenti di origine antropica. La pacchia, insomma.
Gli esperti di Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) parlano di “destrutturazione demografica e doping alimentare”, che ha snaturato i branchi e pompato vertiginosamente la riproduzione dei cinghiali, malgrado l’azione dei cacciatori e dei predatori naturali. Ed è finita che, essendo, proprio come noi, bestie intelligenti, straordinariamente adattabili e curiose, i cinghiali hanno deciso che era ora di ricambiare le tante e moleste visite degli umani, trasferendosi dalla foresta alla giungla d’asfalto.
Uno dei primi provvedimenti del governo Meloni (promosso da un ex consigliere regionale FdI dell’Emilia Romagna, Tommaso Foti, ora capogruppo dei meloniani alla Camera dei deputati ) è stato consentire la caccia ai cinghiali nei parchi e in città durante tutto l’anno, emendamento peraltro subito bacchettato dall’Ue. Il via libera alle doppiette, fortunatamente, non è stato preso troppo alla lettera dai cittadini romani, e speriamo non venga applicato con più impegno dai riminesi col porto d’armi, se dopo i due sparuti cinghiali di via Chiabrera dovessero arrivare comitive più folte. Non è bello essere inseguiti da un suino selvatico infuriato, ma neanche trovarsi involontariamente sulla linea di tiro di un fucile. Dovremo chiedere asilo politico ai gabbiani?
Lia Celi