Flavio Lombardini, l’atleta totale di Rimini
17 Giugno 2023 / Enzo Pirroni
Se è esistito, a Rimini, un personaggio il cui nome si sia legato indissolubilmente alle vicende sportive e storiche della nostra città, questi, è stato Flavio Lombardini. Era nato il 13 Aprile 1904 a Poggio Berni. Soltanto dopo la morte del padre, avvenuta nel 1908, la madre, con i due figlioletti (Enrico, il primogenito era nato nel 1902), si trasferì a Rimini essendo stata assunta come governante in casa del dott. Frizzati, che era il direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura. Le Cattedre Ambulanti di Agricoltura, furono, per quasi un secolo, le più importanti istituzioni agrarie rivolte, in particolare, ai piccoli coltivatori. Soltanto nel 1935, le Cattedre furono trasformate in Ispettorati Provinciali dell’Agricoltura, cessando di essere emanazione delle iniziative locali e diventando uffici esecutivi del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste.
La vedova, inurbatasi, vinse la sepolcrale cupezza arrecatale da una sorte avversa, gettandosi nel lavoro, dedicandosi totalmente alla cura dei figli i quali, crebbero sani applicandosi prima nello studio e quindi nel lavoro. Le fotografie che ritraggono Flavio Lombardini in età giovanile, ci mostrano un ragazzo magro, magro dai folti capelli corvini. Che fosse sottile, non veniva considerato evento di particolare eccezionalità dai contemporanei. Gli italiani dei primi anni del secolo, erano abituati a tirar la cinghia. Lo stato liberale aveva ingrassato molti lasciando, però magra la maggior parte delle masse. Lo sport, prima dell’avvento del fascismo, era riservato ai rampolli dell’aristocrazia ed ai ricchi borghesi.
I poveri potevano andare in bicicletta (se ne possedevano una), nuotare nel porto, giocare alle bocce, cimentarsi in corse nei sacchi, partecipare alle cuccagne nelle sagre. In più, anche questi sport naturali, erano ostacolati dalla assoluta mancanza di impianti, dal cattivo stato delle strade, dalla penuria di tempo libero, dalla ossessiva necessità di lavorare.
Il credo futurista relativo allo sport fu integralmente ripreso dalla ideologia fascista e venne a fondersi con un altro mito enunciato da Filippo Tommaso Marinetti, sempre assai abile nel buscherare la folta confraternita dei pecoroni e dei gonzi pantofolai con l’animuccio da eroe: quello della “giovinezza assurta a principio nazionale”. Fu il regime fascista che fece entrare le masse nella pratica sportiva. L’Italia che restava, per molti aspetti contadina e relativamente povera, cominciò, in camicia nera, ad attrezzarsi sportivamente. Ma pure in momenti in cui la mancanza di proteine era drammaticamente generalizzata e la gioventù cresceva raggricchiata in torvi torpori ingaglioffandosi con la morra e le carte nelle viscose foschie delle bettole, Flavio Lombardini si faceva le ossa come atleta, uno specimen raro nella jungla etnica italiota.
Correva, saltava, nuotava, remava, tirava di boxe, frequentava la palestra del professor Balestri, il maestro che avrebbe portato a livelli di eccellenza la ginnastica artistica riminese grazie ai vari: Neri, Gemmani, Marzaloni, Frioli, Cavina, Vernocchi, Tartaglia, Piancastelli, si cimentava nel tiro al bersaglio, non esitava ad incrociare la propria lama con i migliori schermidori regionali, giocava a pallone sul gibboso prato della Sartona, o sul campo della fiera o “nel piazzale a monte del Kursaal alla marina”.
Il suo nome figura, infatti, tra quelli dei coraggiosi giovanotti che nel gennaio del 1919 scesero in campo con la maglia biancorossa del “Rimini Football Club” affrontando il Forlì: Vici; Pantani, Buldrini; Lombardini I, Zamagni, Donati; Fabbri Luca, Ciavatti, De Lucia, Lombardini II, Fabbri Flavio. Il gioco del calcio, a quei tempi, non “era sport per signorine” ed i campi non avevano nulla a che vedere con la levigata perfezione delle soffici pelouses inglesi. Durante la stagione invernale il freddo rapprendeva cristallizzandolo il fango delle ignobili spianate. Ruzzolare su volgari codoli e su sporgenze di terra gelata provocava, alle carni del malcapitato, tagli profondi e sconcianti abrasioni. Sotto questo aspetto il calcio era un gioco pericoloso ed i genitori rimproveravano i figli che per dissolutezza si appassionavano a tirar calci ad una palla.
Non si parlava né di compensi, né di acquisti, né di cessioni. Un pallone di cuoio, artatamente rappezzato, doveva durare per un intero campionato. Le trasferte, poi, erano vere e proprie scampagnate in bicicletta a base di pane e salame, tanto più apprezzate se gli imprevisti le facevano diventare avventurose. Flavio Lombardini, non si faceva sicuramente spaventare dalle difficoltà né gli facevano paura il dolore e la fatica. Amava correre. Correndo sull’erba e sulla sabbia, non di rado in salita (il colle di Covignano), abituava il proprio fisico a sempre maggiori sforzi. Senza saperlo applicava un primordiale interval training.
I risultati non tardarono ad arrivare. Il 7 settembre 1924 si disputò, organizzato dalla Unione Sportiva Riminese, il Campionato Riminese di Atletica Leggera. Flavio Lombardini s’impose nei 400 piani segnando il tempo di 52” 1/10; negli 800, correndo la distanza in 1’53” 1/10 e nel salto in alto (m.1,68). Migliori furono le sue prestazioni nei Campionati del 1926 allorché corse i 400 in 51’4/5, gli 800 in 1’52” 1/5. Perché Flavio Lombardini atleta lo fu davvero. Nel 1928, quando il record mondiale degli ottocento metri apparteneva al francese Sera Martin con il tempo di 1’50” 6, il nostro uomo corse la stessa distanza a Bologna in 1’51″4/5 che era tempo davvero eccezionale e lo poneva nell’èlite dei mezzofondisti italiani, se è vero che il grande Mario Lanzi, sette anni dopo, nel 1935, vinse gli ottocento a Berlino, in un incontro pentagonale (Svezia, Germania, Ungheria, Giappone, Italia) col tempo di 1’52″2.
Buone prove Lombardini le fornì pure nel salto in alto (al suo attivo un m.1,75 ottenuto staccando alla Lewden, cioè parlando chiaro, saltando facendo la forbice), nei quattrocento piani (51″4/5), nei duecento (23″4/5).
Il servizio militare lo vide impegnato in Istria nel Corpo dei bersaglieri (come poteva essere diversamente?) ed anche durante questo periodo potè gareggiare e mietere successi. Nel frattempo, grazie ai buoni uffici del dott. Frizzati, Flavio Lombardini, si era impiegato presso la Cattedra Ambulante di Agricoltura. Lo stipendio non era da favola ma, perlomeno, il posto era sicuro. Ma la passione per lo sport ardeva sotto le ceneri né lo gratificavano totalmente il lavoro fisso e l’indossare giacca e cravatta. Lo stato liberale aveva stabilito, già nel 1878, grazie al ministro della pubblica Istruzione, il frammassone Michele Coppino, l’obbligatorietà della ginnastica nelle scuole (anche se gli insegnanti di tale disciplina venivano pagati assai meno degli inservienti), ma non era andato oltre. Il fascismo produsse uno strappo rispetto a questa situazione: lo stato s’impegnò direttamente nella gestione dell’educazione fisica extra scolastica, invadendo d’autorità il tempo libero dei cittadini. Gli strumenti per attuare codesta particolare pedagogia etico-politica furono le organizzazioni giovanili fasciste e, in parte l’Opera Nazionale del Dopolavoro. Erano necessari, quindi, insegnanti e ginnasiarchi e si pensò bene di reclutarli tra gli atleti e gli ex atleti italiani.
La Scuola Fascista di Educazione fisica, iniziò i propri corsi nel febbraio del 1928, inizialmente presso l’Accademia Militare di Educazione Fisica della Farnesina a Roma, quindi, dal novembre del 1932 presso la sede definitiva al Foro Mussolini. L’Istituto avrebbe dovuto svolgere una funzione essenziale: formare gli insegnanti di educazione fisica nelle scuole e gli istruttori ginnici-sportivi dell’Opera Nazionale Balilla (ONB), dei Gruppi Universitari Fascisti (GUF) ed anche della Gioventù Italiana del Littorio (GIL) che, dal 1937 avrebbe assorbito sia l’Opera Nazionale Balilla che i Fasci Giovanili di Combattimento.
Flavio Lombardini, nel 1930 si iscrisse ai corsi, li frequentò uscendone con il diploma ottenuto col massimo dei voti. I maestosi saggi ginnici degli anni trenta, videro impegnati a Rimini oltre duemila alunni delle scuole elementari, medie e superiori, confermando il valore della ginnastica collettiva quale strumento per il miglioramento del fisico e valido antidoto per “allontanare la gioventù dalle cattive abitudini inculcandole, nel frattempo, i più elevati concetti morali”.
Lombardini, si diede con vivo entusiasmo a predicare il suo verbo sportivo cercando in tutti i modi, di creare degli atleti, di realizzare, un modello antropologico nuovo che, potesse essere presentato in Italia e all’estero, come esempio di mutazione indotta dal fascismo.
Il Popolo di Romagna del 3-8-1930 scriveva: “Speriamo che il ritorno di Lombardini a dirigere la sezione di atletica frutti ancora quegli elementi e quei risultati che avemmo modo di leggere in passato“. In verità, questo preparatore atletico, severo, gran perfezionista, intransigente, di risultati ne conseguì e non furono vittorie di poco conto. La squadra di ginnastica del Dopolavoro Ferroviario si classificò nel 1932, al primo posto al Concorso Nazionale di Roma e l’allenatore era Flavio Lombardini e fu sempre lui il preparatore della compagine riminese di pallacanestro femminile che, nel 1936 vinse il campionato italiano di seconda categoria. Nessun atleta ebbe a lamentarsi dei metodi da lui adottati, né Lombardini, credo, abbia mancato di rispetto nei confronti di un giovane o di un sottoposto. Era autorevole senza essere autoritario scevro com’era dagli atteggiamenti iperbolici e dalle iterazioni personalistiche, che pure abbondavano in quel periodo. Fu un fascista radicato nella tradizione e nello stesso tempo, consapevole di partecipare della modernità. Per lui il fascismo rappresentava una forza della storia capace di cambiare il paese, incidere nella realtà, trasformare gli uomini. Nel 1933 si era sposato con Fosca Lodolini dalla quale ebbe due figlie. Con il matrimonio anche la situazione finanziaria migliorò.
La moglie apparteneva ad una famiglia di armatori. Flavio Lombardini, potè entrare a far parte dell’impresa di famiglia ed anche in questa nuova attività imprenditoriale si mostrò capace ed assennato. Non abbandonò mai il primitivo impiego. Continuò, fino al 1969 (anno in cui andò in pensione) a lavorare presso l’Ispettorato Agrario che aveva sede a Forlì arrivando a ricoprire il ruolo di Ispettore Capo.
Insieme alla passione inesausta per lo sport, Flavio Lombardini, ne coltivò un’altra non meno assoluta ed imperiosa: la passione per la storia locale. Fu di volta in volta, cronista, storico, polemista, ricercatore di minuzie, fedele custode di memorie. Scrisse tantissimo. Molte sue opere restarono nella semplice forma dattiloscritta ma non per questo risultano meno interessanti. I titoli e gli argomenti sono disparati: Villa Ruffi – Un equivoco rivoluzionario (1974); Fascismo e massoneria- La loggia G.Venerucci (1968); La settimana rossa (1977); Riminesi alle urne (1968); Riminesi nel parlamento italiano 1848-1979 (1979); Rimini nel XX secolo (1968); Mussolini anti Mussolini (1974); L’ombra di Malthus (1975); Chi difenderà l’Europa (1970); Romeo Neri (1974); Cronaca riminese del 1875-1890 (1982); Chi ha ucciso Platania? (1980); L’eccidio di Santa Giustina (1981); Un secolo di Sport Riminese fra ottocento-novecento (1980).
Si spese moltissimo per il bene di Rimini, il luogo che sopra tutti amava. Memorabili le sue lotte affinché la nostra città diventasse capoluogo di provincia. A questo proposito, nei primi anni ’60 creò un comitato il presidente del quale era il professor Luigi Silvestrini e per sé si ritagliò la carica di segretario. Non riuscì, tuttavia, a vedere la realizzazione di questo suo sogno. Morì, infatti, nel 1988.
Lo conobbi che era già avanti con gli anni ma dal portamento eretto si intuivano le antiche virtù atletiche. Era proporzionato, scattante nel fisico, nulla in lui era greve o flaccido, avanzava tra i campi in terra rossa del Circolo Tennis di Rimini tra tutti i giocatori giovani e meno giovani, maestoso ed austero al pari di un cigno tra tanti paperi. Era un gran vecchio. “Onora la faccia del vecchio” è scritto nel Levitico (19,32). La faccia del professor Lombardini, negli ultimi tempi non era quella di chi stanco, attende la morte, neppure quella del vecchio “ilare, sciapo, inoffensivo e babbeo” ma possedeva l’espressione dignitosa in cui accanto al mistero dell’età s’annidava lo spirito della vita: il tempo passato che s’avvinghiava al presente senza maschere e fraintendimenti.
Voglio ricordarlo mentre, agilissimo, giocava a tennis sul suo personalissimo campo del Circolo Tennis di Viale Vespucci: il numero tre. Così quando una pallina finiva nei pressi delle righe dalla sua parte, non esitava a chiamarla out: “Peccato! Ma è fuori!” e lo diceva con voce chiara ed imperiosa. Era il suo unico vezzo: amava vincere.
Enzo Pirroni
(Roma 1932: allievi della Farnesina, Lombardini è l’alteta senza canottiera)