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Dissonanza cognitiva. Succede quando un elemento di disturbo mette in seria discussione il sistema di valori ai quali una persona ha improntato la propria vita. In tal caso “O si nega contro ogni evidenza l’esistenza stessa di ciò che provoca la dissonanza o si censura inconsciamente la nozione che la crea” (Festinger). A questo punto mi domando quanta dissonanza cognitiva abbia provocato nel sistema di valori dei fedeli, l’esteso fenomeno della pedofilia nella Chiesa stigmatizzato con forza da Papa Francesco e la recentissima, inedita affermazione del medesimo Bergoglio che qui riporto testualmente: “Guardare il porno è un vizio che ha tanta gente, tanti laici, tante laiche e anche sacerdoti e suore. E il diavolo entra da lì”. Vediamo un po’ di analizzare la faccenda. Lo psichiatra di Bologna che questa estate ha chiacchierato con me a lungo sotto l’ombrellone in tema di obbligo di celibato e voto di castità, giudicava impossibile che la Chiesa potesse rinunciare a quelle che scherzosamente definiva ‘regole d’ingaggio’. Ciò - mi diceva - “in quanto è proprio la castità del prete ad esaltarne il carisma”. I fedeli sono infatti condizionati, sin dalla più tenera infanzia, da un sistema di valori che sublima la figura del Sacerdote rendendolo degno

In una mia recente Cronaca (arricchita dal richiamo a un bellissimo saggio di Paolo Zaghini) ho ricordato Glauco Cosmi non solo come promotore e anima della Sagra Musicale Malatestiana ma anche come grande poeta dialettale. E’ Dom (Il Duomo) è certamente una delle sue composizioni più suggestive. La calda notte estiva è giunta ormai alla fine e lui, “t’un bagn’ d sudòr” non è riuscito ancora a chiudere occhio. Infine accende la luce, si alza, esce di casa e monta sulla bicicletta. Le strade sono deserte. Glauco pedala lentamente, insonnolito, quando, a un certo punto, per poco non cade dalla bici, fulminato dinanzi alla visione del Tempio Malatestiano baciato dalle prime luci dell’alba. …e dòm , sa di culòr da fè paura/ e pareva un fantèsma, d’un ciaror/ che trasfurmèva al pietri in èria pura/ A m so farmè. Dasdè se marciapìd/ a m so incanted a guardèl piò d’un quert d’ora./A m sèra strac, mo n’ò putù resèst;/A i sarò pas davanti un milioun d’volti/ mo isè bèl an m’arcord d’avel mai vèst. (“Il duomo, con dei colori da far paura/ sembrava un fantasma, di un chiarore/ che trasformava le pietre in aria pura/ Mi sono fermato. Seduto sul marciapiede/ mi sono incantato a

Caro Amos, Ora che a 96 anni sei partito per i campi Elisi, voglio ricordare l’amicizia che ci ha legato sin dai tempi in cui (al dopolavoro della Società Telefonica diretta da mio padre di cui eri uno dei pezzi pregiati) insegnasti a me, sedicenne, l’arte di giocare a boccette. Appresi allora (tra l’esatto posizionamento della gamba sinistra alla ricerca del filotto e la saggezza di una ‘vigliacca candela’ in luogo di tre sponde rischiose) che eri… un ‘mezzo toscano’ come me. Tu da parte di padre, io di madre. E forse fu proprio la comune discendenza da quegli avi che con Curzio Malaparte si autodefinivano…’maledetti’, a renderci così simili nel gusto dell’ironia e del sarcasmo cementando un rapporto affettivo e collaborativo durato tutta la vita. Indimenticabili gli anni del Tuo Sipario Aperto, nella TeleRimini che aveva appena vinto, da antesignana, la entusiasmante battaglia per la libertà d’antenna. Quante risate in quelle riprese rigorosamente in diretta di attori-colleghi-amici dallo straordinario talento comico,come Sanzio Nori, Enzo Tamagnini, Enzo Serafini! E poi le nostre ‘ciacarede’ televisive dove si finiva sempre e comunque a parlare del brutto e del bello della nostra città, pestando spesso i calli a qualche Don Rodrigo locale. E come non citare

Ai tempi in cui, studente in Legge, collaboravo free lance al Resto del Carlino come cronista giudiziario, ebbi modo di frequentare spesso Luigi Pasquini, elzevirista principe del giornale, che era stato anche mio insegnante di Disegno alle Medie. Quel giorno il Professore era in vena di confidenze, cosa che per la verità non gli capitava troppo spesso. Fu così che, passeggiando in Piazza Cavour dopo essere usciti assieme dalla redazione, mi disse: “Senti, Gibo. Oggi ho scritto un pezzo che sono certo piacerà a molti. Ma sta pur sicuro che nessuno me lo verrà a dire. Perché da noi sono pochi quelli che ti battono una mano sulla spalla!”. Ho ricordato questo episodio, in “Cronache Malatestiane del Terzo Millennio” (2001 Raffaelli Editore) dove osservavo che questa caratteristica dei riminesi deriva, a mio sommesso avviso, non tanto da rusticità o addirittura invidia, quanto da una sorta di riservatezza e quasi di pudore dei propri sentimenti. A distanza di vent’anni sento di dover aggiungere qualcosa a quel mio giudizio. E scusate se devo partire da lontano rifacendomi agli antichi Greci. I quali definivano con la parola hubris, il difetto di chi ostenta superiorità e pecca quindi di arroganza e presunzione. Questo modo di comportarsi, che in

In occasione della presentazione dell’incontro letterario da lui organizzato questa estate al Parco degli Artisti, l’amico Paolo Zaghini mi ha giocato un tiro mancino. Avendo dribblato la sua richiesta sulla mia data di nascita, ha deciso di dedurla attraverso una prova indiziaria pubblicando una mia foto giovanile abbinata alla data dello scatto, foto da lui scovata, come da didascalia, nell’archivio del Gruppo Teatrale Sipario Aperto di Amos Piccini. Carissimo Paolo! Quel ragazzino con chitarra e cappello goliardico ha risvegliato in me ricordi talmente vivi e piacevoli che anziché protestare per il trattamento pirata dei miei dati personali, mi sento in dovere di ringraziarti per questo tuffo nell’epoca irripetibile della diffusione a Rimini del virus della chitarra rock, trasmesso a piene mani agli appassionati da un simpaticissimo Enzo Bianchini di Borgo San Giuliano, che nel dopoguerra a aveva fatto parte di una Band USA a Berlino Ovest. Quel virus provocò una vera epidemia musicale, contagiando, attraverso la diffusione porta a porta di quei nuovi magici accordi e assoli strappa budella, una intera generazione di giovanissimi chitarristi riminesi. Sorsero in progressione esponenziale decine e decine di complessi tra i quali si distinsero, per la loro indubbia professionalità, quelli dei Cardinals e dei Four Kingstar.

Chi più “malatestiano” di Don Oreste? Nelle mie “Cronache” Egli non poteva che far la parte del leone … Malatestiano doc, dunque, e, per di più, con beatificazione in dirittura d’arrivo. E se come Santo, non si discute, come Malatestiano faceva ogni tanto - per usare la definizione di Monsignor Lambiasi al termine della tre giorni in suo onore - le sue brave trasgressioni. “Intese - sempre citando le parole del Vescovo - non a violare la legge ma a modificare coraggiosamente la Storia”. Io non me le lasciavo certo sfuggire. Ai tempi del Cardinal Tonini, gridò ai ragazzi di una discoteca (che, manco a farlo apposta si chiamava “L’altro Mondo”): “Dio è in gamba, merita un applauso!”. Al che tutti i ragazzi ad applaudire Dio. Osservai a tal proposito che sembrava una scena da Jesus Christ Superstar, uno spot riuscitissimo per pubblicizzare l’immagine di un Dio paterno, giovanile, amichevole, assai diverso dal Vecchio Geova autoritario e imbronciato dell’Antico Testamento… Qualche anno prima Don Oreste aveva organizzato, contro un Albergatore che si era rifiutato di ospitare un disabile perché gli mandava via i clienti, la Grande Marcia dei Disabili in Carrozzella allo scopo di occupare, per protesta, l’Hotel in questione. Con risultati clamorosi.

Un gruppo di simpatici professionisti e industriali Forlivesi ha costituito, diversi anni fa, l’“Accademia degli Invorniti”, associazione con finalità benefiche e di servizio e uno sguardo anche alla buona cucina. La denominazione da loro assunta mi ha però francamente sorpreso. Chi si definisce invornito, infatti, non compie, a mio parere, una obbiettiva autocritica, un atto di umiltà, come avviene invece per i componenti del Riminese Club (anzi “Glub”) dei pataca. Vediamo di capirci. Se pataca si può diventare, invorniti si nasce. Con la non lieve differenza che l’invornitaggine è incurabile, mentre la patacaggine si può manifestare anche saltuariamente ed essere guarita grazie anche all’intervento critico degli amici. “Nu fa e’ pataca – Lasa andé ad fé e pataca – T’ci sté un gran pataca”, sono infatti significative esortazioni dalle quali si evince (nell’ordine) a) che c’è chi fa il pataca solo adesso b) chi ha appena iniziato a farlo c) chi lo è stato ma ora non lo è più. Orbene, mentre nel “Glub dei Pataca”, tutti i soci si ritengono tali, in quanto realisticamente consapevoli che anche la persona più saggia sia destinata prima o poi a fare la sua brava patacata, altrettanto sincero non può dirsi l’Accademico che si definisca

Ricorre il decennale della scomparsa di un indimenticabile Poeta Romagnolo. Per ricordarlo come merita occorre proiettarsi al tempo in cui Telerimini, dopo la conquista dell’etere, visse, negli anni settanta-ottanta, una lunga stagione creativa dove costante fu il richiamo alle radici popolari. Il nostro dialetto la faceva da padrone soprattutto con la trasmissione in diretta delle magnifiche commedie dei nostri Amos Piccini, Guido Lucchini ed Enzo Corbari. E contribuivano poi a comporre un Video Giornale Adriatico ‘de noialtri’ una quindicina di volontari felici di poter esprimere la loro naturale creatività, altrimenti soffocata dalla routine del lavoro quotidiano. Come il Direttore dell’INPS di quegli anni, vero cultore del Circo in tutti i suoi aspetti, che si fiondava, non appena veniva piantato il tendone, a intervistare trapezisti, pagliacci, domatori, cavallerizze…O il noto avvocato Pietro Spadaro, appassionato cinofilo, che fagocitava tutto ciò che riguardasse l’amico dell’uomo, dai problemi dei randagi ai concorsi di bellezza canina organizzando perfino ‘sfilate’ in studio. O il giovane funzionario di banca Ferruccio Farina (che prima ancora di affermarsi come storico e massimo studioso e divulgatore della figura di Francesca da Rimini) illustrava in tv i contenuti della Rivista Romagna Arte e Storia, fondamentale strumento di cultura locale tuttora opertivo, da

Troppi anni fa, studente al primo anno di legge, messo assieme quanto risparmiato del mensile paterno cenando in latteria, presi il treno per Parigi, ospite, grazie alle solite conoscenze estive, di alcuni universitari francesi in un loro camerone d’affitto dalle parti della Sorbona. Mi sembrava di essere ancora a Bologna dove avevo appena sostenuto l’esame di Diritto Romano. Stessa allegria, stesse baldorie, stessa bolletta. Avevamo già deciso in precedenza (dopo verifiche musicali effettuate durante le vacanze riminesi) di formare un complessino. Con Antoine (scienze politiche) virtuoso di armonica a bocca, Pierre (Medicina) ai bongos e io a cantare, accompagnandomi con la chitarra, certe canzoni italiane ancora sconosciute in Francia da Butta la chiave di Van Wood, a Guarda che luna di Buscaglione. A farla breve, grazie al proprietario di un ristorante con palchetto e microfono, riuscii a starmene a Parigi più del previsto, considerato che dopo l’alloggio anche il vitto era assicurato assieme a qualche franco sganciato dai clienti. Dopo mezzanotte ci fiondavamo tutti e tre nelle caves di Saint Germain dove furoreggiavano Juliette Greco e Gilbert Bécaud. Se Juliette (che riuscii a baciare su una guancia!) mi prese per sempre il cuore, Gilbert con quel suo modo strappa budella di cantare,

Fine settembre. Un capriolo attraversa, in un lampo lo stretto sentiero tra i boschi dell’Alta Valmarecchia che sto percorrendo in sella a un cavallo vecchio come me. E’ stato davvero un attimo, ma forse proprio per questo, vivo questo istante come un dono straordinario offertomi dalla Natura. Alzo gli occhi al cielo dove una poiana galleggia nell’aria come una barchetta. E sento di doverla ringraziare ancora… Le giornate si accorciano. L’inverno è vicino. Gli operatori turistici là in fondo, dove Rimini sta emergendo dalla foschia, stanno facendo il bilancio della loro stagione. Lo faccio anch’io. Già. Sono stato, da bambino, uno che cercava di capire come i giocattoli sono fatti dentro. Il che mi ha creato non pochi problemi. Avevo nove anni, quando, sulla strada di Covignano che porta al Convento delle Grazie, mio padre chiese a un frate che avevamo incrociato durante la nostra passeggiata, di rispondere alla domanda che gli avevo appena rivolto. E cioè come potesse essere buono un Dio che con il diluvio universale aveva affogato milioni di bambini come me. La risposta del frate fu immediata: “I bambini no!”. Come capii molto tempo dopo, studiando il fenomeno della ‘dissonanza cognitiva’, egli si era inconsciamente ‘censurato’, negando l’evidenza, per non subire il

Parlando con un amico di vecchissima data circa gli interventi della Chiesa sul fenomeno della pedofilia sacerdotale, abbiamo concordato sul fatto che le ‘regole d’ingaggio’ (voto di castità e obbligo di celibato) fanno certamente parte del problema. E che i pedofili, in generale, avevano certo vita meno facile nell’immediato dopoguerra quando bambini e ragazzi si ritrovavano tutti assieme a giocare nelle vaste aree cittadine non ancora preda della speculazione edilizia. Il Grande Gruppo di cui venivi a far parte produceva infatti gli anticorpi contro ogni pericolo, grazie allo scambio di informazioni, alla condivisione delle esperienze e alla protezione dei più grandi. Si imparava tutto molto presto e alla svelta. Giorgino (undici anni) riferì a noi di Campo Trieste di essere stato avvicinato al mare mentre faceva il bagno da un ciccione che voleva insegnargli a fare il morto, infilandogli però la mano sotto il costume. E che alla sua domanda: ‘Non sarai mica un finocchio, te?’ quello si era subito allontanato. Gilberto, più o meno della stessa età, ci raccontò che, mentre osservava, in mezzo a un gruppo di curiosi, le prime macchinette automatiche a gettone piazzate sul marciapiede davanti all’Embassy, si era sentito toccare da un tizio magro e pallido che fingeva

Nel 268 a.C., prima che l’augure fornisse istruzioni al mensor (geometra) onde tracciasse nei punti graditi agli Dei il decumano (oggi: Corso d’Augusto) e il Cardo ( Oggi:Via IV Novembre-Via Garibaldi) gli indigeni, quattro gatti, si trovavano tutti appollaiati alla foce del Marecchia dove venivano sbarcate le merci destinate alla regale Verucchio. Ariminum venne pertanto inizialmente popolata dai venticinquemila soldati-coloni (e relative famiglie) appartenenti a quel ‘Latium Vetus’, attuale parte centrale del Lazio, che per 200 anni era stato in conflitto permanente con Roma. Quei ‘latini’ accettarono certamente di buon grado l’ordine di andare a fondare una Colonia. Avrebbero infatti ottenuto, oltre alla buona terra da coltivare, anche la piena autonomia politica e amministrativa da Roma anche se si trattava di rischiare ogni giorno la pelle difendendone i confini dagli attacchi dei futuri Emiliani (Galli Boi) e Marchigiani (Galli Senoni). Si trattava, dunque, di gente molto simile a quegli Europei che, stanchi di subire gli oppressivi regimi politici e religiosi del Vecchio Continente, decisero di abbandonarlo trasferendosi nel Nuovo Mondo pronti a combattere contro gli Inglesi in nome della propria libertà e indipendenza. E, tanto per proseguire il paragone con l’America: - Da noi si arriva da tutte le parti venendo rapidamente integrati. -