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Il giornalista Vittorio Monti sul Corriere della Sera dell’1 febbraio 1982, in un articolo intitolato “’Mio marito ha un impero nascosto, è anche mio’. Sarà a Rimini il divorzio più costoso d’Italia”, intervista a Paola Amati Magnani, "la donna che con le sue rivelazioni fa tremare la Riviera Adriatica", scrisse: “Lui chiede il divorzio, esibendo una denuncia dei redditi di 166 milioni, e lei, che vuole la metà dei beni, porta in tribunale una lunga documentazione. Il magistrato legge e salta sulla sedia: ‘il patrimonio tra azioni e immobili sembra superiore ai mille miliardi’”. La donna dichiara: “Piero dice che ha pochi soldi e un sacco di problemi, ma in realtà il suo patrimonio è enorme. Io lo so bene, perché da un anno passo le notti a leggere verbali, statuti, rogiti e documenti delle sue società. Avevo studiato latino e filosofia, ma adesso ne so più di un commercialista”. La richiesta di divorzio mette così in moto tanti soggetti: la magistratura per falso in bilancio e reati valutari vari, il fisco, la guardia di finanza, il Comune di Rimini. La Magnani, sempre sul Corriere della Sera: “Io non sono una Mata Hari del fisco, voglio soltanto quello che mi spetta.

Alimentari, turismo, divertimento e tantissime costruzioni: le epopee dei personaggi che hanno fatto la storia recente della riviera

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Iniziativa dell'ex sindaco di Coriano Pierini e dell'ex direttore della Biblioteca Zaghini per allestie una nuova mostra fotografica dopo quella di due anni fa su Ospedaletto

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Il mistero di Eugenio Brigidi maitre d'hotel e fotografo, che alle sue feste di compleanno in Valconca vedeva arrivare folle di vip e artisti

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Il Sindaco Bruno Bigucci a nome della Giunta Comunale, al termine del suo incarico nel 1985, scriveva nel fascicolo “Comune di San Giovanni in Marignano. 1980/1985 cinque anni di progresso”: “il Comune di San Giovanni in Marignano ha vissuto una fase intensa di sviluppo. Con sicurezza possiamo dire che gli ultimi sono stati cinque anni di progresso. Non ci arroghiamo certamente il merito esclusivo dello sviluppo di questo paese cresciuto visibilmente in qualità e in quantità. (…) è stata determinante la laboriosità di questa gente. All’Amministrazione Comunale deve essere riconosciuto il merito di aver promosso e condotto lo sviluppo con una programmazione lungimirante e stimolante. A San Giovanni si vive bene. Non possiamo però accontentarci di questo: si può vivere ancora meglio”. Bruno Bigucci era nato il 5 giugno 1942. Giovanissimo aveva incominciato ad occuparsi di politica e a soli 22 anni era entrato in Consiglio Comunale nella lista unitaria PCI-PSIUP alle elezioni del 22 novembre 1964. Il 18 settembre 1966 il Sindaco comunista Guido Donati (in carica dal dicembre 1964 al giugno 1975) lo volle in Giunta (incarico che mantenne sino a giugno 1970). [caption id="attachment_213635" align="aligncenter" width="1718"] 1974 ca. Morciano di Romagna, sede del PCI. Conferenza economica della FGCI della

Misano Adriatico nel 1945 era un comune completamente agricolo, con poco più di 4.000 abitanti. Ancora nel 1951 contava solo 5 alberghi. Era uscito dalla guerra con gravi danni agli edifici e alle infrastrutture pubbliche. Nell’autunno 1944, subito dopo l’arrivo delle truppe alleate, il CLN locale aveva provveduto a nominare una Giunta comunale e un Sindaco in attesa delle prime libere elezioni, che saranno però solo due anni dopo, ad ottobre 1946. Scriverà Vincenzo Rossi, consigliere democristiano misanese dal 1988 al 1990, nel suo libro “Misano A. ieri e oggi”, pubblicato dall’Associazione Albergatori di Misano nel 1984: la Giunta CLN era “composta da membri di diversa estrazione politica, ma con una netta maggioranza socialcomunista. Ne è a capo con funzioni di Sindaco, il sig. Armando Ramenghi, radiotecnico bolognese, trasferitosi per matrimonio nella vicina frazione di Scacciano. Convinto marxista, ex partigiano, è salito alla ribalta rapidamente e, come una meteora, è ripiombato nell’oscurità con le prime elezioni amministrative del dopoguerra. Lo si ricorda come un uomo duro, inflessibile, talvolta impulsivo, ma onesto e ligio al dovere. Vagheggiava processi sommari, condanne per direttissima, epurazioni di massa. Diversi impiegati comunali furono licenziati in tronco, perché ritenuti compromessi con il passato regime”. Ma sin dall’estate 1945 si

Nei primi anni ’90 Bruno Ghigi intervistò una trentina di uomini e donne bellariesi sulla loro vita fra inizio secolo e seconda guerra mondiale per il terzo volume della “Storia di Bellaria-Bordonchio-Igea Marina. Ricerche e studi sugli abitanti e sul territorio (1500-1970)" (Ghigi, 1994). Fra questi intervistati c’era Odo Fantini. “Che attività svolgeva suo padre quando lei è nato? Mio padre continuò a svolgere il lavoro del nonno e del bisnonno: il carrettiere”. “Cosa trasportava sul suo carro? Si dedicava prevalentemente al trasporto di sabbia e ghiaia che andava a prelevare nel letto dei fiumi Uso e Marecchia. Era un lavoro pesantissimo perché la ghiaia e la sabbia dovevano essere caricate con il badile”. [caption id="attachment_206510" align="alignleft" width="1848"] 22 aprile 1946. Bellaria Cagnona. Matrimonio di Carla Zannuccoli con Odo Fantini. Da destra Ernesto Mantani, Odo Fantini, Carla Zannuccoli, Castelluzzi[/caption] “Quando smise suo babbo di fare il carrettiere? Nel 1922, l’anno in cui nacqui io, perché aprì un forno nella zona a mare della Cagnona”. “Quando ha iniziato a lavorare nel forno? A otto/nove anni, quando le scuole erano chiuse: con due sporte di paglia appese al manubrio di una bicicletta, senza freni né parafanghi, portavo il pane a domicilio. Una volta cresciuto, il pane

Mario Masi era nato a Riccione il 7 dicembre 1939, ultimo di sei figli (quattro maschi e due femmine). Il padre Tomaso (1893-1975) originario di San Clemente era un contadino trasferitosi inizialmente a Coriano e poi a Riccione nel 1923 dove aprì una rivendita di vino. La madre, Teresa Berardi (1901-1981), originaria di Misano, trasformò la casa di abitazione all’Abissinia in una piccola pensione. Il fratello più grande, Gualtiero Masi (1922-2017), fu un protagonista politico degli anni del dopoguerra riccionese, Segretario del PCI cittadino dal 1956 al 1960. Anche Mario fece la sua parte, dagli anni ’60 sino alla morte, in vari settori: quello professionale come tecnico e amministratore dei pubblici servizi comunali; come dirigente sportivo; come leader politico. Verso la metà degli anni ’50 venne mandato a frequentare, in collegio, l’Istituto Tecnico Industriale Montani di Fermo, in provincia allora di Ascoli Piceno (prima di diventare autonoma nel 2004), assai noto per la ottima preparazione tecnica che forniva ai propri allievi in Meccanica, Elettrotecnica, Chimica, Radiotecnica. Uscì dall’Istituto nel 1959 con la qualifica di perito tecnico. [caption id="attachment_205306" align="aligncenter" width="2560"] 1966. Riccione. 2° Congresso del Comitato Comunale. Alla tribuna Tiziano Solfrini,

Le brutte notizie arrivano sempre come un leggero soffio di vento sussurrate piano all’orecchio per non farti soffrire troppo e subito, anche se le ricevi al telefono. Così è stato ieri mattina. Un amico mi comunica che ci ha lasciati per sempre l’amico comune Vincenzo Santolini. Aggiunge: quello che abitava nella casa dove sei nato tu. Vincenzo lo conoscevo da quando lasciai la mia casa di Pedrolara. E continuai a vederlo perché ci andavo spesso e ogni volta mi fermavo da lui; un po' per inseguirei ricordi di quel luogo e di quei tempi, un po' per chiacchierare e mangiarci un frutto di qualche pianta che aveva innestato mio babbo. Quando fummo più grandi ci si vedeva più spesso anche perché era stato assunto come impiegato all’Ufficio Tasse del Comune di Rimini. Aveva la mia stessa “malattia”, la politica ed anche la “diagnosi” era la stessa: Comunista. Per queste ragioni ci siamo visti in tante occasioni. Poi come capita spesso nella vita le cose cambiano, si logorano, a volte svaniscono, le visioni del mondo e della politica mutano in ciascuno di noi. Ma non per me e Vincenzo che siamo rimasti fedeli ai valori i cui abbiamo creduto anche se a volte

Per la prima volta dal 1946 Rimini, e l’Italia, non vedrà una festosa folla festeggiare l’anniversario della Liberazione il 25 aprile. Il maledetto coronavirus è riuscito ad aggiungere ai tanti suoi tristi primati anche questo. La guerra in Italia finì in realtà il 29 aprile, quando venne firmata la resa di Caserta, ovvero l’atto che attestò la fine della Campagna d’Italia dei tedeschi e la resa incondizionata dei soldati della Repubblica Sociale Italiana. Perché allora festeggiamo il 25 aprile? Cosa successe quel giorno del 1945? Il Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI) il 25 aprile 1945 proclamò l’insurrezione generale. I soldati tedeschi e i fascisti in quel giorno abbandonarono Torino e Milano. I partigiani occuparono le città lungo la Via Emilia cacciando gli ultimi invasori. La sera del 25 aprile Mussolini abbandonò Milano, travestito da soldato tedesco, ma fu catturato due giorni dopo a Dongo, sul lago di Como, dove fu fucilato il 28 aprile. [caption id="attachment_202619" align="alignleft" width="2560"] 25 aprile 1947. Ingresso del corteo in piazza Cavour[/caption] L’anno seguente, il 22 aprile 1946, il governo italiano su proposta del Presidente del Consiglio democristiano Alcide De Gasperi preparò un decreto, controfirmato dal Ministro socialista del lavoro Gaetano Barbareschi e dal Guardasigilli comunista Palmiro Togliatti,

Per tutti Ennio. Era nato a Riccione Abissinia: “qui mia nonna aveva la trattoria ‘Al pesce d’oro’ e qui i miei genitori gestivano un salone come barbiere e parrucchiera” (le citazioni sono tratte dalla lunga intervista di Fabio Glauco Galli a Tommaso Enio Dellarosa per il libro “La città invisibile” (Fulmino, 2008). Nel 1938 iniziò a frequentare il regio istituto tecnico inferiore “Camillo Manfroni”: “il sabato mattina era obbligatorio presentarsi a scuola in divisa (…) Io non avevo la divisa, perché mio padre era antifascista e non voleva comprarmela, dunque ogni sabato restavo a casa, finché non fu la casa del fascio a regalarmela per i miei meriti sportivi”. [caption id="attachment_200813" align="alignleft" width="850"] 1953. Riccione. Da sinistra, Biagio Cenni, Dante Tosi, Nicola Casali, Tommaso Enio Dellarosa (foto tratta da La Fameja Arciunesa del 2/2014)[/caption] Nel maggio 1940 tutti gli studenti furono obbligati a marciare per Riccione al grido di viva la guerra: “Se qualcuno si fosse azzardato a dire qualcosa in contrario, poi sarebbe stato segnalato, l’avrebbero convocato e preso a legnate. Io, invece, quattro schiaffoni li presi da mio padre al mio ritorno a casa”. “Chi ci aveva provato, poi l’avevano messo in galera. Come Galli Aronne, il figlio di quelli

Nei primi mesi del 1946 Biagio Cenni rimetteva piede a Riccione. Vi mancava da molti anni. L’aveva lasciata nel 1936, a venti anni, per il servizio militare. Ma poi, per lui, una guerra fascista dietro l’altra, con il grado di sergente: gli ultimi mesi degli scontri in Etiopia nella primavera del 1936, poi nell’aprile 1939 l’occupazione dell’Albania, nell’ottobre 1940 l’invasione della Grecia e nell’agosto 1941 la partecipazione, a fianco degli alleati tedeschi, nell’aggressione al territorio russo. A fine dicembre 1942 le truppe italiane dell’8.a Armata vennero travolte dalla controffensiva russa sul Don, messa in atto per respingere il tentativo tedesco di liberare le armate intrappolate a Stalingrado. Cenni, e con lui altre migliaia di soldati italiani, venne catturato dai russi. Nell'inverno 1942-1943 l'Armata Rossa catturò circa 70.000 soldati italiani, di cui 22.000 non arrivarono mai ai campi di prigionia in Siberia, morti nelle lunghe marce di trasferimento (le famose "marce del davaj") a causa di sfinimento, inedia e percosse delle guardie sovietiche; tra coloro che arrivarono nei campi di prigionia, ne morirono almeno altri 38.000. Questi erano stati costretti a marciare per centinaia di chilometri e poi a viaggiare su carri bestiame per settimane, in condizioni allucinanti, senza mangiare, senza poter