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Delicato e sporco: così si diceva de poveraccio che vuol fare lo schizzinoso, ma anche molto altro

Espressione idiomatica che si riferisce a persona che ha pretese eccessive, che chiede cose raffinate, magari in contrasto con l’aspetto trasandato. Un poveraccio che al ristorante chiede caviale! Oppure, nella versione più feroce, sta ad indicare persona che apparentemente è “pulita”, ma nasconde tendenze negative se non addirittura criminali. Nell’immaginario post-fascista, uno di sinistra è “delichèd” perché si ciba solo di caviale e beve solo champagne, ma in realtà è “zònz”, perché nasconde fieri sentimenti antifascisti. Naturalmente il “zonz” non sempre e non necessariamente corrisponde alla realtà di persone poco curate. Viene usato per sbeffeggiare lo schizzinoso, il “rompipalle” di turno che chiede cose particolari e vuole essere servito in guanti bianchi. Si presenta come “delicato”, potremmo dire che si atteggia a persona di alto livello sociale, in realtà, sotto l’apparenza dei modi signorili, è un poveraccio, quindi è “zonz”. Emerge forse così un vago spirito classista? Assolutamente no, nella nostra frase idiomatica resta ben salda l‘ironia del popolo, incardinata sul contrasto beffardo dei due aggettivi e priva di giudizi etico-sociali. Beppe & Paolo Perchè non si perdano le parole e le frasi del nostro dialetto, inviatele, con o senza un vostro commento, a questo indirizzo di posta elettronica: redazione@chiamamicitta.it Oppure affidatele ad un piccione viaggiatore! (Nell'immagine in

Il pane di una volta poteva essere tanto duro quanto lo era la vita stessa

Nei pressi della Pescheria di Rimini, staziona un africano venditore di accendini e fazzoletti di carta. Con buona scelta di marketing ha imparato qualche frase in dialetto, contando sullo stupore dei passanti nel sentire parole in lingua locale in bocca a chi proviene dal continente africano. Locale e globale, appunto. Non sempre lo stupore si traduce in acquisto, comunque almeno la curiosità si ottiene. La frase più ripetuta dal venditore ambulante è appunto quella del nostro titolo. Il Quondamatteo la traduce opportunamente con: ”La vita è dura!”. E’ opportuno chiedersi però che cosa sia il pane senza mollica. Non si sta certamente parlando di grissini, crakers, spianatine, ecc., varianti del pane di diffusione relativamente recente e connesse alla ancor più recente mania delle diete. La frase idiomatica nasce probabilmente nel tempo in cui, per l’alto costo del combustibile, la cottura del pane era avvenimento raro, addirittura mensile o bimestrale e il pane perdeva dolorosamente la morbidezza della mollica. A ciò spesso si aggiungeva la pessima condizione dei denti dovuta alla quasi inesistente igiene orale. Perciò la dieta grama del popolo si arricchiva di zuppe basate sul pane raffermo, come la pappa al pomodoro o la ribollita toscana. Come spesso accade nelle lingue locali,

Il broncio dei bambini, un mistero anche linguistico

Modo di dire ormai desueto. Il Quondamatteo che lo propone al singolare (“zaple, fe e’ zaple”), lo riferisce al bambino che “fa il broncio”, cioè assume l’atteggiamento della bocca che precede il pianto. Una conferma arriva dall’Ercolani che porta “zaplon” o “zapla” come espressione dialettale ravennate che sta per “labbra grosse, carnose, sporgenti”. Il vecchio Mattioli porta “zaplon” per “labbracci, labbra grosse”. Quindi “fe e’ zaple” indica un atteggiamento delle labbra precursore del pianto. Esiste anche la forma esclamativa: “ad do zapli !!” ( che due labbroni!!), indica lo stupore di fronte a certi eccessi della chirurgia estetica che non risparmia sul silicone per accontentare la clientela. Più complicata è la ricerca dell’origine della parola “zaple”. Con un po’ di immaginazione si potrebbe trovare un richiamo alle “zeppole”, dolci di carnevale che, friggendo, si gonfiano come le labbra del bimbo che sta per piangere o della vittima del chirurgo estetico. Questo richiamo, se accettato, trascinerebbe con sé un doppio registro interpretativo: quello dell’amaro cruccio del bimbo in procinto di scoppiare in lacrime e quello del dolce sapore della zeppola, in grado di allontanare le nubi del capriccio infantile. Emergerebbe così la costante caratteristica delle espressioni dialettali, in grado di essere quasi sempre allusive,

Là dove la terra di Romagna è più dura

La frase, nell’uso corrente, indica un momento di difficoltà nello svolgimento di un lavoro materiale o intellettuale. Ma anche una prospettiva, di lavoro o di vita, complicata, condizionata da fattori sfavorevoli oppure da incertezza climatica nella coltivazione della terra o nello svolgimento della stagione turistica. E’ traducibile con “è dura, è piena di ostacoli”. L’esclamazione applicata ad un contesto lavorativo assume una funzione asseverativa, indica la complessità del problema da affrontare. Nell’uso metaforico il significato aumenta di spessore, si arricchisce di un riflesso malinconico di fronte a difficoltà o incertezza insuperabili che la vita quotidiana presenta. Più complicato è cercare l’origine di questa espressione dialettale. La più convincente ci sembra quella suggerita dal linguista Carlo Battisti (fu anche attore protagonista del bellissimo film di de Sica “Umberto D” del 1952) che fa risalire “gnara” alla deformazione dell’indoeuropeo “mara” (roccia). Infatti l’uso descrittivo più diffuso della parola si riferisce alla qualità rocciosa, dura, della terra da coltivare (“tera gnara” in romagnolo). Libero Ercolani, dialettologo ravennate, in modo affine, segnala “gnar” per “caparbio, rabbioso”. Terra dura e caparbia, appunto. Beppe & Paolo Perchè non si perdano le parole e le frasi del nostro dialetto, inviatele, con o senza un vostro commento, a questo indirizzo di posta elettronica: redazione@chiamamicitta.it Oppure

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