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Ma come si fa se la la moglie è indisposta?

La mi möj la m’à dét, òż a cminz a fè i caplét, té t’ pò ‘ndè té cafè, ch’am la šbròj da par mè. Dòp apèina zinc minut, lam céma per dei un aiut, lam diš: pòrca de bòja, an gne la faz a fè la spójà! Vèin a cheša per féla, ch’ò ciap la cagarèla, mé a jò dét sóbti sé, e ch’la s’andès a šbarazè. La spója la n’è da òm, sicóm che mè a sò bòn, a jò dét: per té bèla spòša, a faz qualsiasi còša. La m’à dét: bèl marid, fà la spoja, nu stàm fra i pid, mètte ilé me tulér, e fà donca e tu duver Tinimòdi a te dég mè, tót quèl che t’è da fè, per fè ‘na spója bèla léssa, ui vò sna che t’ubidéssa. A jò dét pòrta pazènzia, se ad mè tan pò fè sèinza, tan mi trat da invurnid, a sò pu sèimpre e’ tu marid. A t’aiut a fè i caplét, s’ tam dè fiducia e rispèt, ch’an vòj che la mi spóša, lam trata da baloša. La m’à dét: per piašèr, tat vò met me tulèr, u jè agl’jóvi e la farèina, prima impasta e pu smèina. Quand e’ spas e’dvèinta dur, tal stènd cun e’ s-ciadur, bèda che at stag da véda, nu fà quèlca una cazèda. Se su fiè se cupèt, ò fat la spója per i caplét, léa l’è arvènza sudisfata, mè cuntèint d’avèglia

Quando una linea snella non era troppo apprezzata: così magro che la luce lo attraversa

Di una persona molto magra si poteva dire, come anche suggerisce il Quondamatteo, che “e’ fa lom”, è trasparente, attraversato dalla luce, o meglio: è tanto magro da non impedire il passaggio della luce. Nella versione negativa, a chi si frapponeva alla luce della finestra o della lampada impedendo la vista, si diceva: “t’an fè miga lom!” (non sei trasparente!). E’ evidente il paradosso che trasforma il soggetto magro in fonte luminosa per rendere più potente lo scherno. Si trovano però altre definizioni per la magrezza umana la cui varietà fa pensare che molte fossero le persone magre. La magrezza, al contrario di oggi, era un fattore negativo e le madri sconsigliavano alle figlie di sposare uomini magri, sintomo di povertà o malattia. Per cogliere il valore attribuito alla “carne” in passato, basterebbe poi ammirare la Venere di Urbino del Tiziano. Tornando al nostro dialetto, di grande effetto era questa frase canzonatoria: ”sora e’ per sec, sota l’e’ pela e osà”, (vestito sembra magro, nudo è pelle e ossa). L’apparenza e la realtà sembrano contraddirsi, invece confermano e rafforzano la descrizione della magrezza. Un’altra, molto colorita, per definire persona estremamente magra: “l’è un che màgna al cràteli di musléin”. Mangia così poco che

Si dice per quello che non doveva nemmeno nascere ma forse fu un personaggio realmente esistito

Tradotto alla lettera dice: il figlio del povero asciugamano. La frase vuole indicare una persona inconsistente, senza carattere, senza arte né parte. Quello che oggi verrebbe definito “uno sfigato” (qui l’etimologia non potrebbe essere più chiara: uscito da lì… per caso). Ma secondo il nostro punto di vista, questa frase idiomatica è più circostanziata, si riferisce ad un preciso rituale sessuale. Prima che la scienza dotasse l’umanità di pillola anticoncezionale, quando la figliolanza raggiungeva il nome di battesimo di Settimio, Ottavia, addirittura di Decimo, la principale forma di controllo delle nascite era il repentino Coitus interruptus. Di questo grossolano metodo era appunto alleato l’asciugamano, destinato alla raccolta e alla neutralizzazione del focoso seme contadino che già aveva ampiamente garantito la prosecuzione della specie umana. Poteva allora accadere, nelle oscure alcove di povere case rurali, che l’asciugamano venisse impropriamente usato dalla donna e che ne derivasse una (ulteriore) indesiderata gravidanza. E’ su quell’”indesiderata” che si è concentrata l’ironia della lingua dialettale. Colui che nasce per caso o per errore, per tutta la vita sarà “e’ fiòl de pòri sugamen”. Ovviamente, come per il moderno “sfigato”, l’uso della frase si allarga ben oltre il caso specifico, diventa appunto idiomatico. Va detto però che il Quondamatteo

Dai “zvuloun” ai “sjpuléin” passando per “magnabessi” e “mastigabrod”

Per indicare la provenienza geografica o il profilo o l’attività prevalente di una persona si usavano soprannomi che nascevano da stereotipi diffusi fra la popolazione. Alcuni esempi. Al mercato delle erbe di Rimini arrivavano produttori e commercianti di cipolle da Santarcangelo: erano tutti “zvuloun”, cipolloni. Per estensione, tutti gli abitanti di Santarcangelo finivano per essere definiti così. E, per vendetta, i riminesi venivano definiti “sjpuléin” I pescatori di Chioggia che abitavano il Borgo S.Giuliano e le banchine del porto trasferendo la cultura della pesca in una Rimini ancora largamente agricola, venivano indicati non con la città di provenienza ma con l’attitudine al consumo di anguille: “magnabessi”, mangiatori di biscie. Uno che parla a vanvera, che non tace nei momenti in cui occorre tacere, un po’ stupido, un po’ narcisista, veniva definito “mastigabrod”, colui che mastica ciò che non ha bisogno di essere masticato. Non possiamo non pensare alla grande attualità di questa espressione gergale. Gli esempi potrebbero essere altri ma ciò che qui interessa è l’uso di soprannomi che attingono alla materialità del lavoro o alla inesausta attitudine all’ironia e alla burla racchiusa nella lingua dialettale. Beppe & Paolo Perchè non si perdano le parole e le frasi del nostro dialetto, inviatele, con o senza un

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