Avrò avuto dodici anni e la mia fantasia era in subbuglio perché ero preso completamente dalla lettura. Leggevo in classe durante le ore di lezione, al momento dei pasti, di notte fino a tarda ora. Per i libri trascuravo la scuola, le nuotate al mare con i compagni, i piccoli doveri domestici. Nelle pagine di quei volumi rinvenivo quel mondo meraviglioso ed intricato per intendere il quale occorreva aprirsi la via attraverso un’irta boscaglia di segni, di frange interpretative, un mondo che per me si è sempre rivelato più completo ed articolato di quella che normalmente viene considerata la realtà. Una volta, nel Bar di Baròl, all’incrocio di via Pascoli con via Lagomaggio, alcuni giovanotti discutevano di sport rievocando la recente impresa di Charly Gaul, sul monte Bondone, al Giro d’Italia del 1956. Il loro discorso era sciatto, amorfo, sbreccato. Le immagini da essi rievocate parevano compresse in una realtà parziale, come respinte agli orli dalla marea della storia. Mi introdussi nella conversazione e raccontai il dramma vissuto da Pasqualino Fornara, la maglia rosa, che, sfinito dalla fatica, semicongelato cadde più volte e dissi di come il di lui direttore sportivo, il buon Giumanini, con le lacrime agli occhi, facendosi
Noi di San Giuliano, che siamo cresciuti stando affacciati al mare abbiamo voci orribilmente strascicate. Parliamo storcendo la bocca, con profonda disistima e non sappiamo di chi. Forse di noi stessi perché non ci si rende conto per quale motivo dovremmo avere in uggia tutti gli altri nostri concittadini. Parliamo con torpida cadenza marinaresca. Le nostre parole non son mai rotonde. Sono sghembe, oblique e sono parte integrante di una teratologia paesaggistica fatta di linee pencolanti, di dune sabbiose, di decrepite abitazioni dalle cui persiane penetra un malignaccio raggio di sole che ha forato, per anni e anni, come un ago le nostre pupille. Il nostro è un dialetto acquatile, al punto che le voci ci escono dal gargarozzo col sentore di alga. Escono come pesci: quei vischiosi “govatti” pieni di lische che nessuno, al giorno d’oggi si azzarderebbe a mettere in tavola. In questo settembre mentre l’estate, tra nuvole bianche accompagna all’occaso un sole ormai fattosi trasparente, ripercorro le strade, per me familiari della Barafonda: via Zavagli, via Nicolini, via Tonini, via Di Miniello… e la solitudine, l’abbandono la decadenza ingigantiscono il sortilegio e l’inquietante architettura che ora porta impresso il lutto che non si può risarcire con il
C’è poca memoria, nello sport come altrove. Per disquisire di tennis, per mia personalissima consolazione, vado a rivisitare le piccole, caserecce, ma nello stesso tempo, esaltanti emozioni provenienti dal passato. Non è soltanto la nostalgia o un tremolante rimpianto senile che mi spingono ad operare codesta operazione à rebours, è soprattutto un voler prendere le distanze dallo sport attuale, dalle sue iperboliche degenerazioni, è il voler far rivivere i momenti magici, anche se minimi, legati ad avvenimenti e personaggi che meritano di essere tolti dai polverosi ed obliati archivi per essere portati alla conoscenza delle giovani generazioni e di tutti coloro che li hanno, ahimè, dimenticati. All’ inizio del novecento, fino agli anni precedenti l’ultimo conflitto, nel nostro paese, lo sport della racchetta, veniva praticato esclusivamente da élites. Va detto, così per inciso, che il primo tennis italiano vide la luce a Bordighera nel 1878 nelle adiacenze della locale chiesa anglicana, mentre a Rimini il primo court, il Club Lawn Tennis, venne inaugurato il sette luglio 1900, ad opera di un tal dottor Demetrio Grovenhoff, un russo residente a Firenze il quale era solito trascorrere le vacanze estive nella nostra città. Quattro anni prima, il 16 aprile 1894, era stata istituita
Alberto Miliani era, allorché si avvicinò casualmente, al mondo del pugilato, un bellissimo ragazzo di buona famiglia. Il ramo paterno prendeva origini da quel Pietro Miliani che, nel 1782, aveva fondato l’omonima cartiera in quel di Fabriano. Gente ricca che per generazioni si lasciò trasportare da un furioso turbinio imprenditoriale, stando ben avvinghiata alla solidezza realistica; gente che stimava essere una virtù la propria perenne insoddisfazione unita alla volontà di nuovi acquisti. Certo, i Miliani crearono un impero e lo fecero, c’è da scommetterci, con l’egoismo, l’arroganza, l’avidità che furono caratteristiche comuni di tutti i pescicani, di tutti i boss, di tutti i capitani d’industria, nel momento più selvaggio del capitalismo. Il nonno di Alberto, Giovanni, staccatosi dal ramo fabrianese, divenne un ricco possidente delle Balze di Verghereto. Alto ed imponente, di una maestosità monumentale, viveva in un vetusto, squadrato palazzo di pietra. Da lì badava alla conduzione dei suoi undici poderi. Fondi che erano dislocati in varie località della vallata tra Verghereto, Capanne, Moggiano, Corezzo, Pieve Santo Stefano… Si diceva, addirittura, che le fiere non avessero inizio se non dopo che tutti gli armenti del signor Giovanni si erano ammassati sul campo. La sua maestosità s’accordava ad una vitalità esuberante,
Ritrovo nelle illustrazioni in bianco e nero dell’ormai arcaico Sport Illustrato, i volti quasi imberbi di Franco Magnani e Sergio Fabbri. Chi sono mai costoro? Franco Magnani di Cesena (classe 1938) e Sergio Fabbri di Rimini (1939), diedero vita per oltre un ventennio (con l’esclusione degli anni compresi tra il 1961 ed il 1965, periodo in cui Magnani corse tra i professionisti) ad un vera e propria contesa sportiva. Codesta rivalità, come nel racconto di Conrad: “Il duello”, che vide gli ufficiali dell’esercito napoleonico D’Hubert e Feraud, protagonisti di una controversia assurda che si protrasse per buona parte della loro esistenza, ha caratterizzato il “destino” di questi due atleti straordinari. Va detto, ad onor del vero, che le carriere dell’uno e dell’altro non reggono il confronto, tanto quella di Franco Magnani, surclassa quella di Fabbri, il quale non fece mai il salto di categoria restando perennemente un dilettante ma, facendo la storia del quotidiano, dell’anonimo, di tutto ciò che pare insignificante, dimenticato, sepolto, riscopro, scrivendo di questi due antichi ciclisti, “ferite di gioia” e m’illudo che la giovinezza non sia irrimediabilmente perduta. [caption id="attachment_413759" align="alignleft" width="1500"] Franco Magnani professionista nella Salvarani[/caption] Ricordo le mattine in cui, io quattordicenne, andavo di proposito a cercare le
Se è esistito, a Rimini, un personaggio il cui nome si sia legato indissolubilmente alle vicende sportive e storiche della nostra città, questi, è stato Flavio Lombardini. Era nato il 13 Aprile 1904 a Poggio Berni. Soltanto dopo la morte del padre, avvenuta nel 1908, la madre, con i due figlioletti (Enrico, il primogenito era nato nel 1902), si trasferì a Rimini essendo stata assunta come governante in casa del dott. Frizzati, che era il direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura. Le Cattedre Ambulanti di Agricoltura, furono, per quasi un secolo, le più importanti istituzioni agrarie rivolte, in particolare, ai piccoli coltivatori. Soltanto nel 1935, le Cattedre furono trasformate in Ispettorati Provinciali dell’Agricoltura, cessando di essere emanazione delle iniziative locali e diventando uffici esecutivi del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste. La vedova, inurbatasi, vinse la sepolcrale cupezza arrecatale da una sorte avversa, gettandosi nel lavoro, dedicandosi totalmente alla cura dei figli i quali, crebbero sani applicandosi prima nello studio e quindi nel lavoro. Le fotografie che ritraggono Flavio Lombardini in età giovanile, ci mostrano un ragazzo magro, magro dai folti capelli corvini. Che fosse sottile, non veniva considerato evento di particolare eccezionalità dai contemporanei. Gli italiani dei primi anni del secolo,
A proposito della Madonna di Trevignano che lacrima sangue ogni tre del mese, ho voluto, stando nel nostro “particulare”, limitarmi a scandagliare ciò che di miracoloso è accaduto a Rimini. “Un dipinto di Lorenzo Pasinelli raffigurante la Madonna (ora allo Schloss Liechtenstein di Vaduz) è indirettamente all’origine di tutta una serie di miracolose immagini mariane riminesi”, scrive Pier Giorgio Pasini nel suo interessantissimo “Arte e storia della Chiesa Riminese”. L’immagine di questa languida Vergine venne poi utilizzata da altri artisti. Domenico Bonavera la riprodusse attraverso un’incisione che molto probabilmente servì per la realizzazione di “un mediocre dipinto settecentesco conservato a Rimini in casa Parri, considerato il ritratto della Beata Vergine nell’aspettazione del parto”. Nel 1730 anche Giovan Battista Costa realizzò un’ulteriore copia. Il lavoro gli era stato commissionato dalla confraternita di san Girolamo ed allorché nel 1796 il quadro cominciò a dar “segnali miracolosi”, il pittore riminese Giuseppe Soleri Brancaleoni, volle far dono ad una sua sorella monacatasi presso il convento delle Clarisse, di un fedele rifacimento della “meravigliosa” immagine. Il “quadretto” fu, nel 1810, esposto nel Santuario della Madonna della Misericordia, il luogo di culto che tutti i riminesi indicano col nome di Santa Chiara. Incredibile est dictu, le tre immagini riprodotte dall’originale
La guerra nel 1946 era un ricordo che sbiadiva. Gli italiani avevano ricominciato a sorridere. C'erano ancora, è vero, le tessere annonarie, le AM-lire e sulle sconnesse, malridotte strade, circolavano i camions Dodge, lasciati dalle truppe americane. L'italiano medio era un poveruomo con indosso abiti sdruciti, cappotti rivoltati, con pochi soldi in tasca, con difficoltà a trovare lavoro e alloggio; tuttavia era pieno di speranze e aveva in corpo una irrefrenabile voglia di evasione. C'era una vera e propria richiesta di divertimento quasi a voler esorcizzare le tante paure sofferte e gli infiniti patimenti. Dilagò, prepotentemente, ovunque, nelle improvvisate balere, nei risorti "circoli", nelle "Case del popolo", un fenomeno sociale: il ballo. Tango, polka, valzer, fox-trot, ma soprattutto boogie- woogie. Era il momento dello swing. Nello stesso tempo, a Rimini, un musicista diciannovenne, Luciano Berlini, ritornato nella sua città dopo l'inevitabile periodo di sfollamento, fu casuale spettatore di una improvvisata proiezione cinematografica, effettuata dalle truppe alleate al Borgo San Giuliano. Era un film musicale. Alla tromba si esibiva un suonatore di Albany: Harry James. Per il giovane Luciano fu una folgorazione. Coinvolgendo un amico, un tale Olten che viveva in Svizzera, Luciano riuscì a procurarsi un prezioso, ed in Italia introvabile volume:
L'indispensabile accessorio maschile che dichiarava subito chi eri era uno dei vanti per la moda italiana
In via Castelfidardo, punto di ritrovo storico del quartiere dagli anni’50
Allievo di Romano Neri, nella fatiscente palestra "Gemmani" dello stadio comunale insegnava lo sport alle ragazze senza aggressività e arrivismo
Calzò per la prima volta i guantoni nel 1923: 350 incontri, 320 vinti, 20 perduti, 10 pareggiati