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Da ragazzo (quindi, purtroppo, tanti anni fa) con alcuni amici mi ritrovai a passare i giorni fra Capodannno e l'Epifania a Badia Prataglia, in uno sperduto casolare. Riscaldati solo da una vecchia cucina economica che non "tirava" neppure bene, costretti quasi sempre in casa da bufere incessanti, senza acqua se non quella della neve sciolta sulla stufa per via della condotte gelate, alla vigilia della Befana eravamo ridotti altrettanti spazzacamini maleodoranti. Verso l'ora di cena sentimmo bussare alla porta, mentre l'ululare del vento nell'abetaia pareva portasse un canto ultraterreno. Siccome non era poca neppure la fame - ormai raggiungere il paese era diventata un'impresa e le provviste erano al minimo vitale - qualcuno pensò seriamente ai primi sintomi del deliquio. Chi aprì la porta aveva perciò lo spavento dipinto sul volto, che raddoppiò nel vedere il buio costellato di fiammelle, mentre nel canto - di angeli o di demoni? - l'unica parola comprensibile era "morte". Ma erano solo bambini, intirizziti e spaventati quanto noi. Poco dopo, mentre imbarazzati ci frugavamo le tasche cercando qualche dono, ci rendemmo conto quanto noi cittadini, nonostante le velleità primitiviste, fossimo ormai tagliati fuori da tradizioni che pure erano vivissime presso i nostri padri. Anche loro infatti - e ce

Una casa che abbia bisogno del prete e della suora, oggi facciamo fatica perfino a immaginarcela. Non per l'avanzare della secolarizzazione. Ma perché, se Dio vuole, le nostre case bene o male un impianto di riscaldamento ce l'hanno tutte. E prete e suora, se ci sono ancora, dormono in soffitta. [caption id="attachment_20498" align="alignnone" width="500"] Due preti in versione non ripiegabile[/caption] Davvero difficile oggi farsi un'idea di quegli inverni senza termosifoni, quando stufe e camini erano le uniche fonti di calore. Ma le camere da letto di solito ne erano prive, tanto che i cibi vi si conservavano altrettanto bene che in ghiacciaia. In questi antri gelati, lenzuoli e materassi erano saturi di umidità; anche muniti di babbucce e papalina, infilarvisi dentro era troppo anche per generazioni temprate da ogni privazione. L'unico modo per penetrare nelle coltri era riscaldarle con quel che c'era. [caption id="attachment_20499" align="alignnone" width="665"] Un prete con suore scaldaletto di diverse fogge[/caption] Eppure era appena l'altro ieri, perché in Italia, ancora nel pieno degli anni '70 del secolo scorso, gli scaldaletto si potevano trovare in ogni buon negozio di casalinghi. Ma erano ormai cose da poveri. Mentre ai primi dello stesso secolo, prete e suora erano dei lussi, quasi degli status symbol. I

Il centenario della nascita di Sigismondo Malatesta nel 2017 può essere l’occasione per fare luce su una delle figure più controverse del nostro Rinascimento. Si dovrà andare oltre la “leggenda nera” della strumentale scomunica del Papa Pio II ed oltre gli stereotipi del principe che Ezra Pound definì “il miglior perdente della Storia”. Ci sono alcuni passaggi della vita di Sigismondo che possono servirci a fare del centenario non solo un evento mediatico o di intrattenimento, ma un contributo del passato per capire meglio il presente. Ecco alcuni spunti. Una data importante è il 1439: Concilio di Ferrara e Firenze. Si discute della riunificazione delle chiese d’Oriente e d’Occidente. Sullo sfondo c’è il timore dell’espansionismo islamico. Con la delegazione d’Oriente (Religiosa e Istituzionale), c’è una presenza filosofica: Giorgio Gemisto Pletone, portatore della cultura neoplatonica che influenzerà Cosimo il Vecchio de 'Medici e contribuirà alla nascita dell’Accademia Fiorentina. Al Concilio il cardinale Bessarione sostiene l’unificazione delle due Chiese con un approccio ispirato a Pletone: ritrovare i valori “primari” delle religioni mediterranee. La riunificazione si farà sulla carta, non verrà mai attuata. Il mondo greco pagano però si affaccia all’occidente e Sigismondo conosce la lingua greca come dimostrano le lapidi dedicatorie (“alla città e al

Attenzione, perché questa è la notte dei Malatesti. Fu infatti un 13 dicembre di 721 anni fa che Rimini divenne malatestiana, per restarla nei successivi due secoli dal punto di vista politico; per sempre, da quello culturale e simbolico. Cosa successe dunque in quel fatidico 1295, nel giorno di Santa Lucia? Come tutte le città del centro e nord Italia, Rimini è dilaniata dalle interminabili lotte fra guelfi e ghibellini. Sostenitori gli uni del papa, gli altri dell’imperatore, si è sempre detto, molto semplificando. Da quando si è costituito intorno al XII secolo, il Comune di Rimini è sempre stato ghibellino. Ma dopo la rovinosa sconfitta dell'imperatore Federico II a Parma nel 1248, i suoi partigiani perdono terreno ovunque. E molti cambiano bandiera, come accade a Malatesta da Verucchio un attimo dopo aver constatato le sorti della battaglia. Da quel momento i "pentiti" Malatesti assumono a Rimini la guida della parte guelfa, fin ad allora capeggiata dai Gambacerri. In quel 1295 il capo indiscusso è Malatesta da Verucchio, con i suoi 83 anni gagliardamente portati, che ancora combatte a cavallo in testa alle sue schiere e che Dante ribattezzerà significativamente “il Mastino”. La famiglia leader dei ghibellini è quella dei Parcitadi. Il loro cognome - che, come spesso accadeva allora, divenne anche un

È il consiglio che mi sento di dare ai Riminesi dopo aver letto la notizia di un fatto spiacevole accaduto nell’ormai lontano 1823. Ce lo racconta il notaio Michel’Angelo Zanotti nel suo Giornale di Rimino. 1823. Terminò questo mese di luglio con una straordinaria disgrazia. Eravi un gatto che inseguiva volentieri il pollame ritenuto nella casa ove abitava il nobile signor Pietro Paci. Questo gentiluomo, indispettito contro questa bestiola, vedendolo starsene sdraiato sopra una fenestra che corrispondeva ad un sotterraneo della casa medesima, gli scaricò addosso un colpo di fucile carico di grossa munizione. L’animale rimase estinto; ma disgraziatamente, transitando in quello stesso istante un suo domestico per nome Pacifico Santarelli, la carica andò a colpire anche questo povero uomo e sì fattamente che, portato allo spedale, cessò di vivere il dì 3 del susseguente Agosto. Un tanto strano incidente accaduto involontariamente afflisse estremamente il Paci, signore di buon carattere che, attesa la sua nobile condizione, l’accidentalità del caso e l’assegno congruo fatto alla famiglia del defonto, dopo l’arresto in casa per qualche tempo, venne liberato, né la Polizia procedè più oltre contro di lui. Alla luce di questo fatto io, che sostengo la tutela e il rispetto degli animali, invito tutti

Prima ancora che l'Italia entrasse nella Grande Guerra, il 24 maggio 1915,  in molti erano già corsi a combattere. Furono 2.300 i volontari italiani che si arruolarono nelle brigate garibadine con alla testa i nipoti dell'Eroe dei Due Mondi, per unirsi alle truppe francesi sul fronte dell'Argonne. E di questi, ben 150 partirono dall'Emilia e dalla Romagna, Rimini compresa. [caption id="attachment_13515" align="alignnone" width="1259"] Insegna del reggimento di marcia della Legione garibaldina[/caption] A raccontare le loro vicende è ora una ricerca coordinata da Mirtide Gavelli e Fiorenza Tarozzi e condotta da due ricercatori, Giacomo Bollini e Andrea Spicciarelli. Il museo del Risorgimento di Bologna l'ha pubblicata con il titolo "Tra Nizza e le Argonne. I volontari emiliano-romagnoli in camicia rossa. 1914-1915". Domani 27 ottobre, alle 17, la presentazione nella sede del Museo in piazza Carducci a Bologna, con autori e curatori. Che hanno scavato a fondo negli archivi da Piacenza a Rimini, riscoprendo nomi, storie, motivazioni. Erano stati Peppino, Sante, Ezio, Ricciotti Jr., Bruno, Costante, tutti figli di Ricciotti Garibaldi e nipoti di Giuseppe, a lanciare l'appello per correre in soccorso della Republique che sembrava soccombere sotto l'urto tedesco. A rispondere, giovani e meno giovani che in un'Italia ancora ferocemente divisa fra neutralità e intervento, scelsero il secondo e con i fatti. Ribelli per indole,

Oggi intorno ai denti si è sviluppata una attività industriale di dimensioni enormi e si sta trasformando la stessa figura del dentista, insidiata ormai da strutture che hanno superato i confini nazionali. Perciò mi ha fatto leggermente sorridere il seguente volantino pubblicitario apparso a Rimini nel 1761: “NOBILISSIMI SIGNORI “Ad istanza di buoni amici, ANTONIO FABBRI Diletante Dentista abitante in codesta sua città di Rimino fa noto alle Nobiltà Loro, non meno a chiunque altro per benefizio e vantaggio comune che, oltre il saper mettere denti bosticci al naturale, impiomba quelli che ne hanno di bisogno, gli pocho stabili o sieno crollanti stabilisce e ferma ed i calcinati o pozzulenti mirabilmente governa e ripulisce, anzi che recar dolore egreggiamente ricrea e consola. Per quelli poi non si trovassero in bocca denti di sorte alcuna, lavora mandipole intere con tal’ arte e politezza che, non solo non si distinguono da’ naturali, ma si puole volendo, oltre il benefizio di ben pronunziare le parole, anche masticare qualunque cibo al proprio individuo necessario e grato. Possiede parimenti una polvere, quale non è né minerale né nauseante, ma tratta da soli semplici, colla quale con tutta facilità si rendono bianchi e lucidi i denti, quantunque neri, e si

Fra i tanti Santi su cui non si hanno prove storiche, o addirittura cancellati dal calendario dalla stessa Chiesa in assenza di riscontri (San Gennaro e San Giorgio, fra i più celebri), dell'esistenza di San Gaudenzo si hanno tracce abbastanza certe. Visse fra III e IV secolo, ritrovandosi nella difficile e fondamentale epoca fra l'Editto di Costantino (313) che dava libertà di culto ai cristiani, e quello di Teodosio (380) che elevava il cristianesimo a religione di stato dell'impero romano. Gaudenzo (o Gaudenzio, o Godenzo) veniva da Efeso. Nei pressi di Smirne (İzmir) e oggi in rovina, era la capitale della provincia romana di Asia. Centro religioso importantissimo fin dalla preistoria, (vi si venerava una divinità femminile poi identificata con Artemide, la Diana romana, il cui tempio era una delle "sette meraviglie del mondo" antico), fu uno dei principali centri di irradiamento del cristianesimo: San Paolo indirizzò una delle sue Lettere agli Efesini, dopo essere stato cacciato dalla città; successivamente il capo della comunità cristiana sarebbe stato San Giovanni Evangelista. Prima curiosità: sia San Gaudenzo che San Giuliano (di Cilicia) oggi avrebbero passaporto turco. Degli innumerevoli Santi Patroni di Rimini, solo Santa Innocenza sarebbe stata originaria della città. Gaudenzo, di famiglia benestante, avrebbe perso entrambi i genitori per mano dei Manichei, una delle

All’indomani del terremoto che colpì Rimini il 16 agosto 1916, dopo l’iniziale sbandamento si avviò con organicità lo sgombero delle strade ed il transennamento delle aree ove si temevano ulteriori crolli; al tempo stesso si riattivarono con tempestività i servizi essenziali; energia elettrica, telefono, poste e telegrafo, uffici pubblici, sportelli bancari, forno comunale e numerosi negozi, pur in condizioni precarie. Naturalmente sul piano economico, oltre ai danni elencati finora, va messa in conto la fine anticipata della stagione balneare, in quanto il terremoto terrorizzò i villeggianti che affollarono ben presto i treni in partenza. [caption id="attachment_11036" align="alignnone" width="1080"] Agosto 1916: tende in piazza Ferrari (Archivio Fotografico, Bibl. Gambalunga)[/caption] Ai primissimi ripari ottenuti grazie alle tende militari, fecero seguito gli aiuti materiali del Genio Civile, con cui si allestirono 882 baraccamenti di fortuna e 150 casette antisismiche. Vennero inoltre presi in affitto 730 vani per dare alloggio temporaneo ai 4.174 senza tetto. Nel mentre ferveva la ricostruzione, la stampa locale – oltre a darne conto – si interrogava anche sulle cause dei terremoti e sulle possibilità di averne qualche preavviso, oltre che sul perché dei gravi danni subiti dai fabbricati. E tentava di fare raffronti coi fenomeni sismici dei secoli precedenti, per scoprirne le analogie e

“La nostra città, che ha saputo fronteggiare la grave crisi prodotta dalla guerra, che con rassegnata coscienza ha sopportato il terremoto del 17 maggio e si preparava con lena gagliarda a rifarsi dalla jattura che dal 1914 la perseguita; e già la sua spiaggia si era ripopolata di bagnanti e un soffio di vita novella aleggiava ovunque, d’un tratto è stata pressoché sepolta dalle insidie di un nemico occulto, tremendo, implacabile”. Così il “Corriere Riminese” iniziava il suo triste resoconto del terremoto che ha colpito la città il 16 agosto 1916. Nel giorno precedente, ferragosto, effettivamente si era sentita una quindicina di scosse, non forti, interpretate come l’eco lontana di un sisma avente l’epicentro altrove. Invece: “La mattina di mercoledì 16, quando ferveva la vita più che mai del mercato settimanale, dopo le ore 9, un nuovo rombo più prolungato e cupo dei precedenti annunciò l’imminente pericolo. La popolazione fece per riversarsi dalle case e la scossa si manifestò violenta, implacabile, tenace. Si ebbe l’impressione che l’intera città fosse rovinata poiché il crollo di molte abitazioni e di cornicioni l’aveva avvolta in una nube di polvere; subito la gente si precipitò nelle strade, sulle piazze. Scene dolorosissime e pietose avvenivano specie dove poveri

Dopo i gravi terremoti del 1672, 1786 e 1875, a Rimini si era rafforzata la convinzione che la città fosse destinata a subire uno scisma all’incirca ogni cento anni. Ma nel 1916 arrivò purtroppo una triste smentita, doppiamente funesta perché si veniva sommando ai disastri della guerra mondiale in corso. È il pomeriggio del 17 maggio, come relaziona il Comando dei Pompieri cittadini: “Alle ore 13,50 minuti e 31 secondi una violenta scossa di terremoto in senso vibratorio e sussultorio destò l’allarme nella nostra città. La scossa, della durata di 15 secondi, fu avvertita in tutta la regione compresa fra le Marche e la Romagna, ma più fortemente fu sentita a Rimini, dove fu giudicata dell’8° grado della scala Mercalli, direzione da scirocco a maestro, con epicentro a circa 20 chilometri dalla costa adriatica”. Il “Corriere Riminese” riprese immediatamente la notizia: “La giornata era chiarissima e la temperatura normale; i cittadini per la maggior parte ancora trattenuti nelle case e negli uffici quando, alle 13,50 precise, accompagnata da un forte rombo quasi sibilante, si è intesa la violentissima scossa. Dapprima molti ebbero l’impressione della caduta di un proiettile, ma fu momentanea impressione poiché ben presto tutti compresero di che si trattava. Appena

“La Concordia”, unico periodico locale presente a Rimini in quel tempo, dedicò ovviamente il giusto spazio alla cronaca del terremoto avvenuto nella notte fra il 17 e il 18 marzo 1875: “D’un tratto la città fu tutta in piedi; lo spettacolo che offriva in quella notte era veramente qualcosa d’imponente. In mezzo al brulichio di tanta gente (la maggioranza era costituita dalle donne e dai fanciulli) non avresti sentito che ripetere queste frasi: Oh che paura! Si ripeterà la scossa? Per cura dell’autorità politica vennero fatti riaccendere tutti i fanali a gas sì della città che dei borghi, furono dati ordini precisi perché ognuno che abbisognasse di qualche soccorso potesse rivolgersi con sicurezza tanto ai carabinieri che alle guardie di Pubblica Sicurezza, non che ai soldati di linea qui stanziati. Vittime non si hanno per buona fortuna a deplorare; però alcune persone rimasero contuse pel dirroccamento di pareti o soffitti. Nel nostro ospedale in quella notte vi furono medicate sette persone per contusioni riportate in genere al capo, causa la caduta di calcinaccio dai muri rotti o abbattuti". [caption id="attachment_10184" align="alignnone" width="1310"] Testata del periodico “La Concordia” del 28 marzo 1875[/caption] Al salvataggio dei due figli di Francesco Casalini (già accennato in precedenza),