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Un ultimo accenno al sisma del 1786, di cui s’è già parlato: fra le iniziative di carattere religioso seguite a quella triste vicenda, va ricordato che per iniziativa del Vescovo riminese, della Pubblica Amministrazione, del Clero e di tutto il Popolo, fu deciso di aggiungere un ennesimo co-protettore della città, a difesa dai pericoli del terremoto, nella figura del vescovo e martire San’Emidio, assai rinomato per i numerosi miracoli compiuti in simili tragiche circostanze. Sant'Emidio è infatti il Patrono di Ascoli Piceno, laddove, purtroppo, sappiamo bene anche dai recenti drammi quanto spesso la terra tremi. [caption id="attachment_9949" align="alignnone" width="570"] S.Emidio in un dipinto di Carlo Crivelli (Cattedrale di Ascoli Piceno, Cappella del Sacramento)[/caption] Nella chiesa del Suffragio, cappella di sinistra, si può ammirare un grande quadro del pittore riminese Giuseppe Soleri Brancaleoni (1750-1806) che raffigura Sant’Emidio nei pressi dell’arco d’Augusto, attorniato da persone terrorizzate e supplicanti, mentre all’intorno precipitano i massi. Il santo fa un gesto implorante verso l’Altissimo, che lo asseconda ordinando al cherubino di rinfoderare la spada e cessare il flagello. [caption id="attachment_9945" align="alignnone" width="556"] S. Emidio nel dipinto di Giuseppe Soleri Brancaleoni nella chiesa riminese del Suffragio[/caption] Nei decenni che seguono il 1786, i diari e le cronache locali segnalano un solo caso di

Un ultimo accenno al sisma del 1786, di cui s’è già parlato: fra le iniziative di carattere religioso seguite a quella triste vicenda, va ricordato che per iniziativa del Vescovo riminese, della Pubblica Amministrazione, del Clero e di tutto il Popolo, fu deciso di aggiungere un ennesimo co-protettore della città, a difesa dai pericoli del terremoto, nella figura del vescovo e martire San’Emidio, assai rinomato per i numerosi miracoli compiuti in simili tragiche circostanze. Sant'Emidio è infatti il Patrono di Ascoli Piceno, laddove, purtroppo, sappiamo bene anche dai recenti drammi quanto spesso la terra tremi. [caption id="attachment_9949" align="alignnone" width="570"] S.Emidio in un dipinto di Carlo Crivelli (Cattedrale di Ascoli Piceno, Cappella del Sacramento)[/caption] Nella chiesa del Suffragio, cappella di sinistra, si può ammirare un grande quadro del pittore riminese Giuseppe Soleri Brancaleoni (1750-1806) che raffigura Sant’Emidio nei pressi dell’arco d’Augusto, attorniato da persone terrorizzate e supplicanti, mentre all’intorno precipitano i massi. Il santo fa un gesto implorante verso l’Altissimo, che lo asseconda ordinando al cherubino di rinfoderare la spada e cessare il flagello. [caption id="attachment_9945" align="alignnone" width="556"] S. Emidio nel dipinto di Giuseppe Soleri Brancaleoni nella chiesa riminese del Suffragio[/caption] Nei decenni che seguono il 1786, i diari e le cronache locali segnalano un solo caso di

È la notte di Natale del 1786 – come si diceva la volta scorsa – quando giunge la scossa terribile. “All’improvviso traballare del suolo, al crollare delle fabbriche, allo strepito e al frastuono che ovunque si leva, si riscuotono le genti sepolte nel sonno e, cacciate dallo spavento, balzano dai letti e si riversano da ogni parte nelle piazze e in tutti i luoghi aperti. Fioccava lievemente la neve e andava coprendo il terreno. Soffiava gelato e impetuoso il vento di tramontana. Onde si può ben pensare quale fosse lo stato delle moltitudini che poco vestite e male in arnese esponeansi così al rigore della stagione. Nonostante lo sbalordimento e il terrore, si accesero in varie parti quantità di fuochi per cacciare le tenebre e insieme difendersi dal freddo". I Magistrati fecero costruire molte capanne di legno per ricoverare le povere famiglie rimaste senza casa abitabile. Ognuno cercò di sistemarsi come meglio poté. Don Matteo Astolfi, (autore della Narrazione illustrata la volta scorsa) confessò di avere passato alcune notti dentro un tino sistemato in mezzo all’orto, poi in un casotto di legno sulla piazza della cattedrale, quindi in un umido scantinato. La mortalità non fu grande: nove persone perite sotto le macerie delle

Si stavano completando i risarcimenti cittadini, dopo i danni causati dal terremoto del 1672 e la città non aveva del tutto dimenticato quell’evento luttuoso, che la terra diede ancora segno di insofferenza. Infatti nel 1703 “il giorno della Purificazione di Maria Vergine (il 2 febbraio, popolarmente la "Candelora"), verso il mezzogiorno, tremò sì forte la terra che rese grande spavento a tutta la città. Ma non cagionò alcun danno, mentre tanti ne apportò alla piccola città di Norcia e nella diocesi di Spoleto, ove furono ruinate castella e terre (‘terra’, cioè piccola città) in numero di 37”. “Quanto fosse lo spavento anche tra noi – prosegue lo storico riminese Carlo Tonini nel suo racconto – possiamo argomentarlo eziandio dal trovarsi negli Atti Pubblici che in quella contingenza fu deliberato di eleggere un altro santo protettore della città: S. Filippo Neri, dimostrando come per l’intercessione sua fossero stati preservati vivi tra le ruine di Norcia e dell’Amatrice quanti aveano custodita presso di sé la immagine di esso”. [caption id="attachment_9320" align="alignnone" width="678"] San Filippo Neri, aggiunto ai Patroni di Rimini per proteggersi dai terremoti[/caption] Oggi vengono i brividi nel trovare il nome di Amatrice fra le località distrutte in quella circostanza! Ahimè, una tragedia che si

Sul terremoto riminese del 1672 è opportuno fermarsi ancora un poco, giacché è stato il primo grave flagello di cui abbiamo svariate notizie, consistenti in relazioni manoscritte e descrizioni a stampa; ma è stato anche l’ultimo cataclisma che i superstiti (religiosi e laici) hanno giudicato concordemente e senza alcun dubbio come un frutto della collera divina ed una punizione dell’empietà umana. Quel medesimo anno 1672 usciva un opuscolo intitolato: “Nova e vera relatione del spaventoso e horribile terremoto che su l’hore 21 delli 14 aprile 1672 si fe’ sentire per tutta Romagna e Marca, ma particolarmente nella città di Rimini con atterramento di chiese, palazzi, torri e case, con mortalità considerabile di persone”. L’estensore tuonava: “S’è tanto inoltrata la malizia umana che ha sforzato l’onnipotente Mano di venire alla vendetta. Le chiese (mi vergogno a dirlo) sono diventate mercati o, per dir meglio, lupanari; le lascivie sono ridotte al non plus ultra e poi ci meravigliamo che la terra vacilli se non può sostenere tali misfatti?” E un anonimo prelato, in altro opuscolo, gli faceva il contro canto: “Non si può tralasciare di riflettere che le rovine maggiori furono delle chiese ed edifizi sacri; e credesi perciò che la Divina Giustizia habbia

Sul terremoto riminese del 1672 è opportuno fermarsi ancora un poco, giacché è stato il primo grave flagello di cui abbiamo svariate notizie, consistenti in relazioni manoscritte e descrizioni a stampa; ma è stato anche l’ultimo cataclisma che i superstiti (religiosi e laici) hanno giudicato concordemente e senza alcun dubbio come un frutto della collera divina ed una punizione dell’empietà umana. Quel medesimo anno 1672 usciva un opuscolo intitolato: “Nova e vera relatione del spaventoso e horribile terremoto che su l’hore 21 delli 14 aprile 1672 si fe’ sentire per tutta Romagna e Marca, ma particolarmente nella città di Rimini con atterramento di chiese, palazzi, torri e case, con mortalità considerabile di persone”. L’estensore tuonava: “S’è tanto inoltrata la malizia umana che ha sforzato l’onnipotente Mano di venire alla vendetta. Le chiese (mi vergogno a dirlo) sono diventate mercati o, per dir meglio, lupanari; le lascivie sono ridotte al non plus ultra e poi ci meravigliamo che la terra vacilli se non può sostenere tali misfatti?” E un anonimo prelato, in altro opuscolo, gli faceva il contro canto: “Non si può tralasciare di riflettere che le rovine maggiori furono delle chiese ed edifizi sacri; e credesi perciò che la Divina Giustizia habbia

Il 14 aprile 1672 fu un giorno infausto, come ci ricorda Carlo Tonini nelle sue pagine di storia riminese e nelle cronache allegate. “Correvano l’ore 22 in circa del Giovedì Santo, nel qual tempo la maggior parte della città trovavasi impiegata o in assistere ai divini uffizi, o a visitare i sepolcri, allorché viddesi da settentrione alzarsi in faccia alla città una nuvola di colore assai denso e fosco, quale appena avendo scoppiato in un tuono ottuso, tremò per lo spazio d’un pater noster gagliardamente la terra, con dupplicato moto: il primo fu di polso, sommovendo di sotto a’ fondamenti le fabbriche; il secondo di tremore, a guisa di chi ondeggia in mare. Sì spaventoso fu lo scuotimento, che quasi non è restato edifizio, per forte e ben intero che fosse, che da sì fiera agitazione ed empia non sii rimasto senza notabile offesa”. Subito dopo si avvertirono esalazioni sulfuree alla marina e un forte vento provocò burrasca, tanto che i marinai sentivano le acque gorgogliare sotto le imbarcazioni, tanto da credere d’essere finiti sopra banchi di sassi. Frattanto il terremoto non cessava, perché dopo breve tempo la terra tremò altre due volte (ed ulteriore sussulto ebbe verso le ore 13). Lo

A San Giuliano, in occasione della Festa del Borgo, sarà offerto spazio ai soprannomi dei vecchi borghigiani, messi in mostra sul muro di una casa in Via Ortaggi, con tanto di inaugurazione solenne il 2 settembre. Si tratta di 39 soprannomi recuperati attraverso la memoria orale e quindi riferiti ad un passato abbastanza recente. Ma l’usanza dei soprannomi viene da molto più lontano ed era diffusissima fin dal Medioevo, per supplire all’assenza quasi generalizzata dei cognomi. Chi volesse dedicarsi alla ricerca d’archivio potrebbe rendersene conto. A titolo di esempio, mi permetto di riportare un elenco di 106 persone con soprannome, vissute nel Borgo S. Giuliano durante il Trecento e il Quattrocento. Per ciascuna di loro viene indicato il nome di battesimo, il nome paterno (o cognome in qualche rarissimo caso), il soprannome (in corsivo), la professione (se conosciuta); mentre fra parentesi compare l’anno in cui è documentata per la prima volta. Non sempre l’appellativo ha per noi una spiegazione; talora fa riferimento all’aspetto e alle fattezze anatomiche, al mestiere, alla provenienza, al carattere e alle specificità o tendenze individuali (spiattellate senza troppo riguardo). In alcuni casi richiama oggetti od espressioni non più d’uso corrente, come ad esempio Gomera per indicare il vomere, o lo Schiavo per

A Rimini nell’Ottocento (ma non so da quanto tempo la cosa durasse) era invalsa la consuetudine di conferire un premio alle persone che compivano pubblicamente azioni meritorie, quelle che, con un termine abbastanza pomposo, oggi definiremmo “atti di eroismo”. Gli autori del gesto dovevano scrivere una lettera all’autorità municipale descrivendo il fatto e chiedendo il compenso. Si sono conservate varie missive di questo tenore, spesso sgrammaticate, sempre colorite, capaci di descrivere avvenimenti, situazioni, luoghi, abitudini che ci fanno rivivere il clima di una stagione ormai tanto lontana e quasi inimmaginabile. Ecco una di quelle lettere. “Illustrissimo Signor Gonfaloniere. Rimini, oggi 9 agosto 1840, alle ore 9 e mezza antimeridiane. Noi Gualfardo Montanari, Lorenzo Cosmi e Giuseppe Moschi tutti tre di Rimini, ritrovandosi precisamente nella cantina di rinpetto alla piciola piazetta cossì nominata volgarmente S. Bernardino a fare colazione, tutto in un momento sentissimo gran tomulto di persone entro in detta cantina senza conosere cosa fosse sucesso. In pochi istante sentissimo a dire che un certo Lucchini contadino della parochia di S. Lorenzo in Strada che aveva pricipitato disgraziatamente dal angolo d’un pozzo che dentro in detta cantina essiste. Noi sonuminati non abbiamo mancato il rinvinimento del infelice Luchini che prima col ajuto dell’Ente sopremo