HomeLia CeliScandalo a Sanremo, alla fine le più trasgressive sono le nonne


Scandalo a Sanremo, alla fine le più trasgressive sono le nonne


11 Febbraio 2023 / Lia Celi

Chi ha fatto le ore piccole per vedere tutta la finale di Sanremo 2023? Qualcuno che non ha visto le quattro serate precedenti e non sa che Marco Mengoni aveva già la vittoria in tasca dalla prima serata. Mentre scrivo queste righe l’ultima tranche del Festival sembra solo un piano inclinato che porterà inevitabilmente il leoncino d’oro rampante simbolo della città ligure nelle mani del cantante di Due vite, non prima delle due e mezza di notte.

Si vincono anche soldi? Pare di no, il guadagno è tutto in visibilità, impennata di vendite e di passaggi radiofonici, moltiplicazione dei concerti e prestigioso passaggio a Eurovision Song Contest – e, naturalmente, il vincitore entra (o dovrebbe entrare) nella storia del Festival. Tutte cose di cui Mengoni non ha bisogno, avendole già ottenute tutte nel 2013, Eurovision compreso – dove arrivò solo settimo, a causa dell’inveterata allergia paneuropea alle canzoni intimiste e agli interpreti dal look minimalista. (È l’argomento più forte in mano agli anti-mengonisti, e cioè che se vince lui, l’Eurovision ce lo scordiamo anche quest’anno, mentre con Rosa Chemical o con Madame, o al limite con i Cugini di Campagna avremmo più speranze.)

Comunque la si pensi su Mengoni (e io sono di quelli che preferiscono Rosa Chemical e Madame), bisogna dargli atto di avere una voce strepitosa, una delle poche all’altezza delle grandi ugole del passato. Come decibel e intonazione siamo dalle parti di Al Bano, per intenderci. È che a Mengoni manca tutto il resto. E non mi riferisco a Romina, alla quale lui non sarebbe comunque interessato nemmeno se fosse ancora l’adorabile ninfetta degli anni Sessanta.

Alludo all’infanzia povera e contadina, alla lotta per la vita, alla tavola sguarnita che hanno prodotto non solo Al Bano, ma anche Morandi e Ranieri e in genere la Great Generation della nostra musica leggera: tutta gente più bassa di trenta centimetri, causa carenza di proteine nobili, rispetto a Mengoni e compagni, ma con una tempra sbalorditiva – e si è visto nella seconda serata del Festival, quando i tre vegliardi di cui sopra si sono mangiati l’Ariston e tutti i giovincelli sfilati fino ad allora sul palco.

Vale anche al femminile: Mina, Orietta Berti, Vanoni, l’immarcescibile Zanicchi, le mai abbastanza rimpiante Milva e Raffaella, sbocciate in uno show-business ben più ottuso e sessista di quello di oggi, si erano conquistate già prima dei trent’anni un’autorevolezza e un potere che le popstar italiane di oggi se lo sognano.

Nemmeno Laura Pausini, con la sua splendida carriera e i suoi successi internazionali, può dettare legge in tivù e nei concerti come facevano le dive della canzone italiana degli anni Sessanta-Settanta. E ancora meno possono Elisa, Giorgia, Emma, Elodie e compagne, pur bravissime e mature. Forse questo dovrebbe essere il compito delle matriarche della canzonetta: non solo mostrarci quanto sono invecchiate bene, ma spiegare alle loro nipotine come si fa a farsi sentire, oltre che sul palco, anche dietro le quinte, negli uffici di registi, produttori e discografici. Come infischiarsene di risultare simpatiche, carine e sempre magre, o di avere un’ineccepibile vita privata – Raffa che non si è mai sposata e Mina ragazza madre ai loro tempi erano ben più trasgressive dei Maneskin. Forse potrebbero insegnare qualcosa anche a Mengoni.

Lia Celi