Il terremoto del 1786 fra solita ricostruzione e nuova “scienza”
12 Settembre 2016 / Oreste Delucca
È la notte di Natale del 1786 – come si diceva la volta scorsa – quando giunge la scossa terribile.
“All’improvviso traballare del suolo, al crollare delle fabbriche, allo strepito e al frastuono che ovunque si leva, si riscuotono le genti sepolte nel sonno e, cacciate dallo spavento, balzano dai letti e si riversano da ogni parte nelle piazze e in tutti i luoghi aperti. Fioccava lievemente la neve e andava coprendo il terreno. Soffiava gelato e impetuoso il vento di tramontana. Onde si può ben pensare quale fosse lo stato delle moltitudini che poco vestite e male in arnese esponeansi così al rigore della stagione. Nonostante lo sbalordimento e il terrore, si accesero in varie parti quantità di fuochi per cacciare le tenebre e insieme difendersi dal freddo”.
I Magistrati fecero costruire molte capanne di legno per ricoverare le povere famiglie rimaste senza casa abitabile. Ognuno cercò di sistemarsi come meglio poté. Don Matteo Astolfi, (autore della Narrazione illustrata la volta scorsa) confessò di avere passato alcune notti dentro un tino sistemato in mezzo all’orto, poi in un casotto di legno sulla piazza della cattedrale, quindi in un umido scantinato.
La mortalità non fu grande: nove persone perite sotto le macerie delle loro casupole in città e diciotto nella diocesi; mentre i feriti furono assai numerosi. Le case interamente crollate furono solo tre, ma tantissime quelle danneggiate, anche in modo serio. Le fabbriche più colpite in città furono le chiese, tanti crolli da non farne un elenco, e alcuni dei principali palazzi signorili. Tutti i castelli soffrirono danni notevoli e principalmente Misano, Mulazzano, Besanico, Cerasolo e Serravalle.
Le scosse continuarono per molti giorni, accompagnate ora da lampi, ora da rombi sotterranei, sicché i crolli si ripeterono. L’ultimo sensibile sussulto della terra fu registrato il 26 maggio 1787.
Per rilevare e quantificare i danni furono redatte due perizie: l’una promossa dal Legato della Provincia e condotta dall’architetto Camillo Morigia; l’altra decisa direttamente dal Pontefice e condotta dal celebre architetto Giuseppe Valadier. I criteri adottati risultarono differenti, ma i dati finali non si discostarono molto, giungendo entrambe alla conclusione che i danni complessivi ammontassero a circa 350.000 scudi. Altra conclusione concordante: fu unanimemente constatato che le fabbriche più danneggiate furono quelle che avevano subìto offese nel precedente terremoto del 1672 ed erano state risarcite in maniera poco corretta.
A partire dal febbraio 1787 si mise in movimento la macchina della ricostruzione, alla quale contribuì il Pontefice con un sussidio di 100.000 scudi e con la consueta sospensione dei carichi fiscali.
Tutta la vicenda non fu esente da polemiche e discussioni, che riguardarono particolarmente le cause da attribuire ai fenomeni tellurici e le possibili misure per prevenirli. Come di consueto la gerarchia ecclesiastica cercò di fare aggio sulla commozione e sul terrore provocato dal sisma per sostenere la tesi del terremoto come castigo divino in risposta alla condotta peccaminosa della popolazione, promuovendo come rimedio tutta una serie di funzioni religiose ed iniziative di penitenza.
Non mancarono però di farsi sentire le voci di chi sosteneva invece le cause naturali dei fenomeni e cercava di individuarne l’origine, proponendo alcuni rimedi concreti. In questo ambito si distinse (ironia della sorte) proprio un religioso, l’arciprete don Giuseppe Vannucci che nel 1787 pubblicò il suo Discorso istorico-filosofico sopra il tremuoto, in tre successive edizioni di cui solo la terza portava il proprio nome nel frontespizio (forse non a caso). Don Vannucci partiva da alcuni riscontri effettuati nei momenti del sisma:
“molti osservarono – e nelle case e nelle strade – discendere dai soffitti, dai muri o dai tetti orgogliose e vive fiammelle nella figura, nel colore e nel crepito similissime ad elettriche scintille; né mancarono persone autorevoli le quali affermassero che la croce e la palla dorata del campanile di S. Agostino apparvero allora investite da una palla di fuoco”.
Muovendo da questa constatazione, don Vannucci si ricollegava ad una delle teorie allora in lizza nel mondo scientifico, la “teoria elettricista”, che riteneva il terremoto determinato da una violenta scarica elettrica di origine sotterranea oppure di provenienza atmosferica. La sua proposta teorica si fondava sull’ipotesi che “la cagione producitrice del tremuoto fu una densissima pioggia di elettrico vapore venuto a noi dalle nubi”. Le quali nuvole si comportavano come un “arco conduttore”.
La difesa da lui proposta consisteva nella costruzione di quattro altissime torri lungo il lido del mare, a distanza di circa 800 metri l’una dall’altra, sulle quali installare lunghe punte di ferro collegate ad un “filo scaricatore” destinato a convogliare in mare il pericoloso vapore elettrico, proteggendo perciò la città dalle scosse di terremoto. Nella sostanza, una specie di grossi parafulmini.
I dibattiti, le obiezioni, le polemiche suscitate da questa teoria furono enormi e varcarono i confini locali. Superfluo dire che, al termine, le ipotesi di don Vannucci tali rimasero e i disegni delle sue torri mere esercitazioni di grafiche, gentilmente fornite dall’architetto Giuseppe Valadier che in quei mesi era a Rimini per la citata ricognizione dei danni.
Oreste Delucca