Tutto il corona-lessico che vogliamo dimenticare al più presto
23 Maggio 2020 / Lia Celi
Quest’anno il cambio di stagione è particolarmente stressante. Perché a quello degli armadi, già impegnativo di suo, se ne aggiunge un altro, quello del vocabolario. Non si tratta solo di archiviare vestiti pesanti e pensionare per quattro mesi giacconi e cappotti, ma anche di mettere via parole, espressioni, perifrasi, luoghi comuni che tutti abbiamo usato e strausato negli ultimi mesi, e che speriamo di non dover più usare per molto, molto tempo, perché legati a un evento che ha sconvolto le nostre vite e buttato a gambe all’aria tre quarti del pianeta.
Ne cito a caso qualcuno, cominciando dal «tampone», che fino allo scorso febbraio indicava un tipo di assorbente interno oppure, per noi madri di famiglia, un banale esame batteriologico cui sottoponevamo i bambini con la tonsillite (i miei figli ne hanno fatti a decine).
Adesso, anche quando non ne mai abbiamo avuto uno in gola, ci esce comunque dal naso e dalle orecchie, a forza di sentirlo citare, invocare, positivo, negativo, doppio o triplo, accessibile o fantasma, singolare o plurale, migliaia, centinaia di milioni di tamponi.
E la parola «asintomatico»? Un concetto altamente destabilizzante: mi sento bene ma potrei essere malato, anzi, senza saperlo potrei aver contagiato decine di persone. E ad alcune di loro magari non è andata grassa come a me, forse hanno sofferto di complicazioni gravissime. Insomma, potrei essere un assassino di nonni, un serial killer involontario, un pericolo pubblico che ha agito indisturbato seminando morte e distruzione.
Non vediamo l’ora di escludere dagli argomenti delle nostre conversazioni i vari virologi o infettivologi, tanto più che in tre mesi non abbiamo ancora capito bene qual è la differenza fra le due specialità, anche se facciamo convintamente il tifo per l’uno o l’altro luminare (qui, se non altro per ragioni campanilistiche, si tifa Burioni).
Altre espressioni che sarebbe bello mandare in soffitta sono le perifrasi coniate e diffuse dai media ed entrate nell’uso comune durante la fase 1. L’«andrà tutto bene» ha commosso il mondo, ma ha mostrato la corda già dopo le prime settimane di lockdown, quando abbiamo cominciato a infamare i runner e a denunciare il vicino che portava il cane a pisciare a 210 metri da casa. Liquidato abbastanza presto anche il «ne usciremo…» da completare a piacere: ne usciremo migliori, peggiori, uguali a prima, oppure, per i più dubbiosi, sospeso a un punto di domanda: ne usciremo?
L’unica cosa certa è che ne stiamo uscendo più poveri, anzi, siamo usciti da una pandemia per entrare, senza soluzione di continuità, in una crisi nerissima dall’uscita lontana e incerta. Nel corona-lessico ha resistito un po’ più a lungo l’insulso «la natura riconquista i suoi spazi», usato dapprima seriamente come didascalia per le immagini (spesso fake) di animali selvatici in giro per le città deserte poi messo in burletta e parodiato in mille modi.
Ma dal 18 maggio la festa è finita e la natura è stata sfrattata: l’uomo metropolitano ha rapidamente riconquistato i suoi spazi, o meglio, è tornato a condividerli con gabbiani e ratti, che saranno meno carini di cervi e delfini, ma fanno parte della natura anche loro, e non se ne sono mai andati.
Dovremo usare ancora per un po’ le parole che ci aiuteranno a tenere sotto controllo un morbo che gironzola ancora fra noi, anche se meno invadente di prima: «sanitizzazione» e «distanziamento sociale». Ma da queste prime battute di ripartenza pare che gli italiani, tanto bravi durante il lockdown, ora si siano spaccati in due: una metà diligente che sanitizza e distanzia, per la sicurezza propria e altrui, e l’altra convinta che sia scattato il «liberi tutti», si assembra spensieratamente e porta la mascherina appesa al braccio, come se il Covid-19 si trasmettesse attraverso le gomitate.
Incrociamo le dita guantate, e speriamo che il virus si sia stufato di noi quanto noi di lui e preferisca riconquistare i suoi spazi nella pancia dei pipistrelli da cui è partito. Perché se no fra due-tre settimane rischiamo di dover rispolverare tutta la terminologia che volevamo dimenticare.
Lia Celi