Il Dino Campana di mio nonno, Otto Gross e il Giro d’Italia
4 Giugno 2023 / Enzo Pirroni
Credo di essere uno dei pochi, in Italia a possedere l’edizione originale dei “Canti Orfici” di Dino Campana uscita, a spese dell’autore, per i tipi dello stampatore Ravagli di Marradi nel 1914. Come era finito un libretto di poesie in casa di mio nonno materno commerciante di grano e semi da prato, il quale, con le lettere non aveva nessunissimo rapporto? La storia appartiene alla nostra saga familiare.
Mio nonno Serafino Nicoletti, si apprestava, in quel soleggiato mattino di ottobre, ad entrare alla Borsa Merci, come era solito fare ogni martedì, allorché un giovane di pelo rossiccio, atticciato nella persona, vestito come poteva esserlo un contadino di montagna: “saccona” di velluto a coste e pantaloni di fustagno, gli si avvicinò con fare gentile e gli offrì di acquistare un libretto. Mio nonno, piuttosto bruscamente, cercò di allontanare il venditore ambulante, ma questi insistette e gli confessò che aveva fame, non aveva un soldo e da tre giorni si nutriva esclusivamente con “la minestra dei poveri”. Mio nonno, socialista massimalista e, in quel periodo amico e sodale di Benito Mussolini, a quella dichiarazione mise mano al portafogli e, con gesto di solidarietà porse dei soldi al giovane.
Ma questi insistette. Volle dargli il libro che mio nonno, distrattamente accettò, non prima però che il “poeta” non gli avesse col lapis vergato una dedica: “All’uomo compassionevole dagli occhi cerulei, l’autore dedica. Campanaz”. Rimase in casa il libretto. Sopravvisse ai disastri dei bombardamenti della Seconda Guerra mondiale, si salvò, non si sa come dalle dispersioni causate dai tanti traslochi. Mia madre, che era maestra, lo schiaffò, in un angolo della sua modesta biblioteca comprendente romanzi di Lucio D’Ambra, Carolina Invernizio, Pitigrilli, l’immancabile Cuore di De Amicis e l’edizione completa delle opere di Gabriele D’Annunzio.
Lo ritrovai nella estate del 1968, quando preparavo l’esame di Letteratura Italiana che avrei dovuto sostenere con il professor Neuro Bonifazi. Il prof. Bonifazi, che di Campana era un conoscitore profondo, quando lo vide cercò, con le più artate, mielose maniere di accappararselo. Non glielo cedetti. Non perché fossi conscio della rarità e del valore del libro ma semplicemente perché era appartenuto a mio nonno e poi a mia madre. Ora è lì tra i tanti volumi che come una pencolante, barocca costruzione, mi stanno sommergendo.
Spinto da un irrefrenabile impulso di trasgressione, Dino Campana, in quel martedì 6 Maggio del 1913, dimenticando la chimica, le affascinanti lezioni del prof. Alfredo Galletti, sulla cultura europea, si aggirava per la vecchia Genova, nel labirinto dei vichi marini, e da via Prè, dove abitava, scendendo gli scagni di Sottoripa si portò verso il Ponte dei Mille e lì, tra “l’aria pura e appena segnata di nubi leggere“, “sotto un cielo nuovo, un cielo puro“, frammischiato alla folla che si accalcava “ai lati della strada bianca come una nuvola“, assistette all’arrivo della prima tappa del quinto Giro d’Italia: la Milano-Genova di 341 chilometri.
Riuscì a scorgere Santhià che tagliava per primo il traguardo e dopo qualche minuto vide giungere Albini e Pratesi che si piazzarono rispettivamente al secondo ed al terzo posto. Fece in tempo a riconoscere pure Canepari, Pavesi, Rossignoli, Azzini, Ganna, Gerbi, Bordin, e persino il giovane Girardengo che, a soli vent’anni, lasciava presagire l’enorme classe di cui era dotato.
La sera stessa, alla luce incerta e rosseggiante di una piccola lampadina elettrica, sul tavolo ricoperto dall’incerata, tra il vociare di avvinazzati, nella Osteria del Moro, scrisse una poesia intitolata Traguardo. La dedicò a Filippo Tomaso Marinetti. L’indomani la spedì alla sede del Movimento Futurista che si trovava a Milano in Corso Venezia al numero 61.
Nello stessa giornata era giunto a Genova, prendendo alloggio all’Hotel Miramare, lo psicanalista stiriano Otto Gross. Era arrivato da Graz, pedalando sulla sua monumentale Roudge a manubrio basso. Già allora Otto Gross, apparteneva a quel gruppo di intellettuali di sinistra e rivoluzionari di professione che si battevano per “il rovesciamento di ogni ordine esistente, contro la volontà del mondo intero”. Egli sosteneva che: “in epoche selvagge, turbolente, oscure, gli individui appiattiti ed allargati, hanno il sopravvento. Gli individui sensitivi, ristretti, approfonditi (quelli come Campana, come Gross), riescono invece ad imporsi allorché gli ideali semplici perdono valore, mentre sorge la necessità di sviluppare alcuni ideali universali. Costoro sono i simbolisti, gli allegorici, i fautori della consonanza e dell’astrazione“.
Otto Gross, vedeva nella bicicletta un veicolo d’elezione per la salvezza degli uomini. La bicicletta gli permetteva l’avventura, l’evasione, la pratica del nomadismo. A tale proposito va detto che, nello stesso periodo in cui Dino Campana si recò in Sud America, lo psicanalista austriaco aveva effettuato un periglioso viaggio nella giungla brasiliana, alla ricerca di paradisi incontaminati. In quei luoghi inospitali, vaneggiando sulla morte per droga, aveva dato corpo alla sua teoria, secondo la quale, ogni disgrazia umana era iniziata con l’imporsi del patriarcato. Gross, auspicava che fossero reintrodotti il matriarcato, la libera educazione dei figli, la libera sessualità di gruppo, comprensiva dell’incesto madre-figlio.
Quel giorno della primavera del 1913, nella superba città marinara, elementi della vita personale di due irregolari venivano a trovarsi casualmente in spazi contigui, tra apparizione fuggevole e muto congedo, in bilico su quella precaria frontiera che delimita la presenza e l’assenza, tra il nulla e il mistero. “La storia dell’uomo – sostiene Timoty Pnin, indimenticabile creatura nabokoviana – è la storia della sofferenza“.
Sia Campana che Gross si erano precocemente allenati alla sofferenza e molto si intendevano di patimenti. Entrambi, seppure in maniera diversa, avevano penato per la bieca cecità dei famigliari, per gli insulti che, l’opaco perbenismo aveva scagliato contro le loro coscienze indifese. Il mondo dei padri, di quella generazione che aveva sostenuto i pericolosi miti positivistici, li aveva, pur non vincendoli, stremati, abbattuti, sconfitti.
Hans Gross, padre di Otto, illustre professore di criminologia all’ Università di Graz, aveva fatto ripetutamente ricoverare e mettere il figlio sotto tutela in ospedali psichiatrici. Il maestro elementare Giovanni Campana, padre di Dino, “uomo agnostico ma non ateo, come De Amicis; repubblicano ma devoto alla monarchia, come Crispi; materialista ma convinto assertore della genialità, come Lombroso…” non aveva esitato a spedire il giovane Dino, che non andava d’accordo con la madre, al manicomio di Imola, accompagnando l’internamento del figlio con una lettera indirizzata al prof. Brugia, direttore dell’Ospedale Psichiatrico, nella quale c’era scritto: “Guardi di guarire mio figlio, com’Ella guarì me. Questo mio figlio fisicamente non è mai stato malato, fino a quindici anni è stato sempre di carattere un po’ chiuso, ma sempre buono obbediente e giudizioso nelle cose sue, sebbene alquanto disordinato“.
Nell’inverno del 1920, Otto Gross, morì di totale sfinimento a Berlino, dove si era trasferito, dopo aver passato una notte lungo e disteso su una strada ghiacciata con la bicicletta accanto. Aveva quarantatrè anni. Dino Campana, finì i suoi giorni nel manicomio di Castel Pulci, il 1 marzo 1932. Aveva quarantasette anni. Si trovava internato dal gennaio del 1918.
Il mondo, si sa, è fatto di segni che devono essere decifrati. Difficile è peraltro, rinvenire il fuggevole sintagma della presenza poetica all’interno di vite sofferte, lastricate di patimenti estremi. Nè Dino Campana, né Otto Gross erano uomini costruiti per finire vittoriosi in un mondo che privilegiava un rapporto reificato con l’arte, con le persone, che incentivava il compromesso quotidiano, l’ipocrisia ed il più bieco tornaconto.
In una accorata, coraggiosa confessione, il pazzo di Marradi dirà: “Mi sono sempre battuto in condizioni così sfavorevoli che desidererei farlo alla pari“. Ma si tratterà, purtroppo di una lotta impossibile, perduta in partenza. Lo sarà per lui come per Otto Gross, come per Boine, Slataper, Serra, Michelstaedter, Franz Werfel, Anton Kuh, Franz Kafka, Wilhelm Reich. Insomma, per tutta quella generazione sventurata che, con interiore coerenza e consapevole stoicismo si autoeliminerà sottraendosi in tal maniera all’autunnale corruzione, alla decadenza, al putrido sfacelo di una civiltà declinante tra il fatuo epicureismo e le frivolezze estreme della belle époque.
Campana fu l’ultimo nomade della nostra letteratura (che ne annovera pochissimi), ed è codesto suo vagabondaggio che l’accomuna alla grande, proletaria, scapigliata, famiglia dei ciclisti. Per questo mi piace immaginare Dino Campana, la sera del 6 maggio 1913, nella fumosa Osteria del Moro, là a Porta Pila, presso la foce del Bisagno, intento a dividere un poco di cena con gli ultimi degli isolati. Quei ciclisti che, con dieci soldi in tasca, tante speranze, disarmante incoscienza ed infinito coraggio tentavano l’avventura al Giro d’Italia. I poveri sono facilmente solidali e generosi tra loro. Argomenti per la conversazione ne avranno certamente avuti.
Enzo Pirroni